Il mondo occidentale conobbe la danza orientale nel ‘700 e il fascino di quest’arte ricca di sensualità le consentì di entrare nel cuore e nelle menti degli stranieri d’Europa. E tale fu l’idealizzazione della danza orientale che i desideri degli europei finirono per creare qualcosa di completamente nuovo: un’arte che è fusione tra Oriente e Occidente.
Se pensiamo al concetto di “Oriente” in astratto è difficile impedire alla nostra mente di formarsi immagini ben precise, quelle atmosfere da Le mille e una notte cariche di fascino e mistero, ricche di tendaggi, tappeti, incensi, odore di spezie. Elemento fondamentale di questo Oriente immaginario è certamente quella che noi chiamiamo danza del ventre o danza orientale, vale a dire la performance di danzatrici che, a ritmo di ūd e tabla, i tipici strumenti rispettivamente a corda e a percussione, si esibiscono in sensuali movenze che hanno come epicentro la zona del bacino.
Questo tipo di immagini, che fanno ormai parte anche della nostra cultura, ha un’origine bicentenaria. Ne è una chiara testimonianza la particolare attenzione che venne rivolta al racconto biblico di Salomè a partire dall’800. Il racconto proviene dai Vangeli di Marco (6, 17-28) e di Matteo (14, 3-11): Erodiade, madre di Salomè, conviveva con Erode, fratello del suo primo marito, ed era per questo biasimata da Giovanni il Battista. Un giorno, per celebrare il compleanno del re, Salomè danzò in suo onore e l’esibizione – la celebre danza dei sette veli – piacque molto a Erode, tanto che egli le promise di acconsentire a qualunque sua richiesta; Salomè allora, istigata dalla madre, chiese che le fosse consegnata la testa di Giovanni il Battista. La figura della fanciulla, di cui nei Vangeli non si menziona nemmeno il nome, subì nell’800 un’evoluzione: da ingenuo strumento nelle mani della madre crudele, Salomè si trasformò a poco a poco una donna fredda e seducente, che aveva usato la sensualità della sua danza per attuare una terribile vendetta. Questa immagine di Salomè ha ispirato soprattutto i pittori del XIX e del XX secolo: essa compare, ad esempio, tra le fredde e sensuali figure femminili di Gustav Klimt, di cui immortale esempio è Giuditta. Ma è il pittore Gustav Moreau ad essere particolarmente attratto dal mito della danzatrice, tanto da farne la protagonista di ben tre dipinti.
Il XIX fu un secolo rivoluzionario per quanto riguarda i rapporti fra l’Occidente e l’Oriente: fu infatti il periodo che produsse il fenomeno chiamato da Edward Said, nel suo saggio omonimo, “orientalismo”. Con questo termine Said definisce una complessa moltitudine di fatti che riguarda, in generale, la visione dell’Oriente che l’Occidente ha costruito per se stesso – dove con “Occidente” si intendono Europa e Nord America, mentre con “Oriente” si designano soprattutto il Medio Oriente e l’India. Non si tratta, però, soltanto di mera speculazione: l’orientalismo è iniziato con un concreto sforzo per comprendere un mondo diverso e, per certi versi, alternativo a quello fino ad allora conosciuto. Ma è iniziato anche con una divisione fondamentale, basata su ciò che “noi occidentali” siamo in grado di fare e “loro orientali” no. Una divisione che ha condizionato tutti gli studi successivi, anche quelli di carattere più scientifico – basti pensare che anche Karl Marx in Der achtzehnte Brumaire des Luis Bonaparte scrisse, a proposito della scarsità di fonti sull’Oriente prodotte dai suoi abitanti: «Non possono rappresentare se stessi; devono essere rappresentati». Così, inevitabilmente, si è finiti a pensare l’Oriente attraverso le categorie mentali occidentali e si è creato un “altro” Oriente, che poggiava le proprie basi su quello reale ma risultava da esso del tutto differente. In altre parole, l’orientalismo è la rappresentazione dell’Oriente: una rappresentazione che creò una corrente culturale di estrema importanza per il mondo occidentale e che, paradossalmente, finì per influenzare l’Oriente stesso. Come si dirà a breve, la danza è un perfetto paradigma di questo fenomeno.
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