Lo scorso giovedì 11 gennaio la Camera dei Deputati ha approvato a larga maggioranza il testo di riforma costituzionale Renzi – Boschi. Si tratta della prima lettura alla Camera: la riforma sarà soggetta a una seconda lettura in entrambi i rami del Parlamento, prima di essere posta a referendum confermativo nel prossimo autunno.
Per inquadrare la reale portata del disegno di riforma costituzionale Renzi – Boschi è necessario allargare lo sguardo dalla dimensione italiana a quella internazionale e assumere un’ottica di lungo periodo: la Costituzione di uno Stato è un’entità che determina per decenni la struttura del sistema politico-istituzionale, si inserisce nei cambiamenti in atto nel Mondo globalizzato e segna la vita di intere generazioni.
Un’analisi globale della questione richiede di partire da lontano, dal Diciannovesimo secolo, e precisamente dalla seconda metà di questo: un periodo storico che mostra un panorama politico-economico segnato dalla crescita esponenziale delle rendite e dei profitti dei grandi capitali (siamo nell’era della nascita del capitalismo per come lo conosciamo oggi); dalla radicale separazione tra diritto pubblico e diritto privato; dalla (conseguente) indipendenza del mercato rispetto all’intervento dello Stato (il movimento socialista e le varie Internazionali vedranno la luce da lì a pochi decenni); dall’imperialismo degli Stati occidentali finalizzato all’espansione del potere di mercato delle società industriali nazionali, che cominciano proprio in questi decenni a farsi “multi-nazionali”. Un panorama politico-economico definito dalla letteratura “Stato liberale”. A ciò è succeduto il “primo” Novecento, caratterizzato dalle due Guerre Mondiali e dalla nascita dei socialismi e dei fascismi. Un periodo storico che ha visto una tendenza di fondo comune: la progressiva restrizione della libertà economica ad opera dello Stato, il crescente controllo pubblico nelle attività di produzione e distribuzione della ricchezza. Comunismo sovietico, nazional-socialismo tedesco e fascismo, in fondo, sono versioni diverse (ed estreme) di questa tendenza politico-culturale.
Finisce la Seconda Guerra Mondiale, e in Italia si arriva nel 1948 alla Costituzione. «Da oggi – si può così riassumere l’obiettivo di fondo dei Padri costituenti – lo Stato dovrà essere in grado di portare a sintesi le opposte esigenze di socialismo e liberalismo; dovrà riuscire a trovare un compromesso tra libertà ed uguaglianza, tra i diritti individuali e gli interessi collettivi della società». La prima parte della Costituzione è infatti dedicata all’enunciazione di tutti i principi, i diritti e le libertà alla base dell’ordinamento italiano; la seconda parte, invece, alla delineazione della forma di Stato funzionale alla garanzia e realizzazione concreta di suddetti principi, diritti e libertà del cittadino, che trovano sintesi nel comma 2 dell’Articolo 3:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Non è possibile considerare le due parti come disgiunte, quasi i principi e i diritti contenuti nella Prima Parte si potessero adattare a tutte le varie impalcature costituzionali possibili. Il bicameralismo, il sistema elettorale proporzionale puro, la forma parlamentare della democrazia, eccetera, sono tutti strumenti funzionali alla realizzazione dei principi esposti nella Prima parte. Il sistema elettorale proporzionale, in particolare, era concepito come il migliore strumento di rappresentanza del pluralismo politico, sociale e culturale e, di conseguenza, come il migliore sistema elettorale per tenere insieme tutte le parti sociali e farle concorrere alla gestione politica dello Stato.
Dalla fine degli anni ’70 comincia una nuova epoca: nel 1979 Margareth Thatcher vince le elezioni in Gran Bretagna, nel 1980 è il turno di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Comincia ufficialmente l’epoca del neoliberismo, incentrata sulla riduzione degli apparati pubblici ad una forma di “Stato minimo” garante della libertà economica e della concorrenza tra privati, e inizia il processo di globalizzazione dell’economia. Il mercato si internazionalizza, gli apparati di controllo pubblico e le reti di welfare vengono progressivamente smantellate, le grandi società multinazionali aumentano fatturati e potere di influenza sulla politica. Qualche decennio dopo siamo all’oggi: le differenze socio-economiche tra i primi e gli ultimi sono aumentate esponenzialmente; l’economia si è finanziarizzata e consente immense rendite ai grandi fondi di investimento; la politica è dettata da organismi sovranazionali (banche centrali e Fondo Monetario Internazionale su tutti); gli apparati pubblici sono fortemente indeboliti nella funzione di governo dell’economia; le grandi società multinazionali hanno via via ottenuto strumenti giuridici per porsi sullo stesso piano degli Stati; i Governi (su tutti, USA e Commissione Europea) procedono alla stesura di trattati di libero scambio che eliminano le residue tariffe doganali (già praticamente azzerate) e prevedono la futura privatizzazione di tutti i settori dell’economia e dei servizi.
In poche parole, ci troviamo all’interno della fase finale del progetto neoliberista e ad un vero e proprio ritorno (mutatis mutandis) alla realtà politico-economica del secondo Ottocento: globalizzazione del grande capitale, Stato minimo ed anzi esistenza di ordinamenti istituzionali e legali funzionali alle dinamiche degli interessi delle oligarchie economiche e finanziarie. È finita un’epoca, quella della democrazia sociale, ed entriamo in un nuovo “Stato liberale globale”, che la letteratura definisce “Post Democrazia“.
Vi starete chiedendo: ma la riforma costituzionale del Governo Renzi, cosa c’entra in tutto questo? C’entra eccome, perché va a riformare la Seconda parte della Costituzione, pensata appositamente per realizzare concretamente il contenuto della Prima, e in questo modo riduce la capacità statale di garantire tutti i principi e diritti ivi contenuti. La Camera dei Deputati sarà formata per i 2/3 da nominati di fiducia del Presidente del Consiglio, che così potrà influire sull’elezione del Presidente della Repubblica e dei membri della Corte Costituzionale: ci troviamo di fronte ad una sorta di “premeriato assoluto”, soprattutto a causa delle caratteristiche politico-culturali del popolo italiano – portato ad innamorarsi troppo facilmente di leader carismatici, cui si delega il comando in bianco – che non dà alcuna garanzia di fronte alle ubriacature populiste a cui troppo spesso questo Paese ci ha abituati. Non solo: tutti i vari tasselli della riforma, dalla fine del bicameralismo perfetto al potenziamento del potere esecutivo, sono finalizzati alla efficienza dei processi decisionali, alla stabilità governativa ed economica. In poche parole, il Governo italiano deve diventare un superburocrate capace di applicare le direttive dell’Unione Europea e garantire le condizioni ottimali per i capitali multinazionali.
Si tratta di una forma di Stato pensata proprio per rispondere alle sfide dell’internazionalizzazione dell’economia e per garantire il buon esito del progetto liberista di riduzione degli apparati pubblici, di smantellamento delle reti di welfare e di privatizzazione definitiva di economia e servizi. In questa direzione si sta andando da anni in larga parte dell’Europa, ed è proprio la maggioranza dei Popolari a spingere in questo verso. Invertirlo è complicatissimo, perché bisognerebbe prima di tutto costruire l’Europa federale e poi riformarla nella direzione di un maggiore controllo pubblico sull’economia ed i grandi capitali. Se mai questo progetto politico vedrà la luce prima della disgregazione dell’Unione ad opera delle forze nazionalistiche, che cavalcano il malcontento sociale causato dalle politiche di austerity, sarà stata un’impresa titanica.
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