Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De André. Due grandi poeti del Novecento italiano. Incredibilmente diversi l’uno dall’altro, ma al tempo stesso incredibilmente simili. Il comunista e l’anarchico; il cineasta e il cantautore. Due facce diverse, ma della stessa medaglia – la medaglia della critica alla società capitalista e consumista, e del suo riflesso sociale: la borghesia.
Pasolini (1922 – 1975), originario di una famiglia piccolo-borghese bolognese, dopo aver trascorso l’infanzia tra Bologna e il Friuli, negli anni ’30 tornò in Emilia per studiare, dopo un breve soggiorno a Cremona. Nel 1941 ritornò ancora in Friuli, a Casarsa della Delizia, dove rimase fino alla fine della guerra. Nel 1950 si trasferì a Roma, vivendo nelle borgate, in mezzo al popolo del sottoproletariato urbano del quale finì per innamorarsi.
Emarginato a causa della sua omosessualità (che nel 1949 gli era costata l’espulsione dal Pci), si trovò in naturale empatia con quel mondo di reietti, esclusi e poveri, ma ricchi di vita. Anche la lingua delle borgate lo attirò molto, un gergo espressivo, vivace e in armonia con l’atmosfera picaresca di quei luoghi. Il poeta annotava i dialoghi fra i ragazzi:
Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Tor Pignattara, alla borgata Alessandrina, Torre Maura o Pietralta, mentre su un foglio annoto modi idiomatici, lessici gergali presi di prima mano dalla bocca dei parlanti, fatti parlare apposta.
Questo è il periodo in cui inizia la stesura del romanzo Ragazzi di vita (1955). [1]
De André (1940 – 1999) è anch’egli originario di una famiglia borghese. Nato a Genova e cresciuto nella provincia di Asti durante la guerra, ritornò nel capoluogo ligure dove, dopo un primo approccio traumatico con la musica, scoprì il cantautore francese Georges Brassens, del quale tradusse alcune canzoni. Al centro di tutta la produzione artistica di De André ci sono gli esclusi, gli emarginati, la popolazione ghettizzata nella Genova vecchia, gli abitanti di Via del Campo, del porto: prostitute, minoranze etniche, disertori, diseredati, bombaroli… tutte figure che occuperanno un posto centrale nei suoi componimenti, descritte senza pregiudizi, dimostrando che “se non sono gigli / son pur sempre figli / vittime di questo mondo”. [2]
Pasolini e De André sono due personaggi molto diversi l’uno dall’altro, ma entrambi accomunati dal rifiuto degli standard di una società alla quale non appartengono, che li porterà a rivolgersi a quel mondo dimenticato dai benpensanti. Entrambi borghesi, entrambi outsider: uno per il suo essere un letterato omosessuale; l’altro per aver scelto la via della musica. Così alla asfissia culturale della borghesia, Pasolini contrappone la vitalità del sottoproletariato romano. Così all’ipocrisia morale della borghesia, De André contrappone l’essenzialità ingenua e sincera della “Genova male”.
Eppure vi sono delle differenze nel modo in cui Pasolini e De André descrivono questi mondi. Il primo – come dicevamo – è politicamente impegnato, è comunista: per lui il popolo non dev’essere più oggetto agito, ma deve diventare soggetto agente nella storia.
Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l’antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d’imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare?Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non ha la libera memoria…
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.[P. P. Pasolini, Il canto popolare, in Le ceneri di Gramsci (1957)]
Questo amore per il popolo tenderà a svanire nei decenni seguenti. Nell’agosto del 1975 infatti scriverà:
Sono in uno stabilimento di Ostia, tra il turno di lavoro del mattino e quello del pomeriggio. Intorno a me c’è la folla dei bagnanti in un silenzio simile al frastuono e viceversa. Infuria la balneazione. […] Guardo la folla e mi chiedo: “Dov’è questa rivoluzione antropologica di cui tanto scrivo per gente tanto consumata nell’arte di ignorare?” E mi rispondo: “Eccola”. Infatti la folla intorno a me, anziché essere la folla plebea e dialettale di dieci anni fa, assolutamente popolare, è una folla infimo-borghese, che sa di esserlo, che vuole esserlo.
Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta. E mi disgustano soprattutto i giovani (con un dolore e una partecipazione che finiscono poi per vanificare il disgusto); questi giovani imbecilli e presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi quasi venerabili.[P. P. Pasolini, Fuori dal Palazzo, in Scritti Corsari (1975)]
Fra il 1957 – data della prima pubblicazione de Le ceneri di Gramsci – e il 1975 il mondo è cambiato. In Italia ha fatto la sua comparsa la società dei consumi, la critica della quale impegnò Pasolini negli ultimi anni della sua vita. Il popolo di cui Pasolini si era innamorato era stato distrutto da una feroce, brutale omologazione agli standard di vita borghesi. Egli non riesce a farsene una ragione. Individua i colpevoli di questo genocidio culturale nella televisione e nella scuola pubblica, i mezzi con cui questo nuovo Potere anonimo ha imposto i suoi modelli borghesi all’Italia intera.
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Fabrizio De André non ha lo stesso ardore politico di Pasolini. Egli è un anarchico, un libertario. L’autoritarismo, lo statalismo dei comunisti non fa per lui, come non fa per lui l’ipocrisia borghese. È un cantastorie che non vuole chiamare il popolo a fare la rivoluzione, non vuole formare una coscienza di classe, ma vuole dare voce a coloro i quali il potere la voce ha tolto.
Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi –
ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi –
una bimba canta la canzone antica della donnaccia:
quello che ancor non sai, tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia.
E se alla sua età le difetterà la competenza,
presto affinerà le capacità con l’esperienza:
dove sono andati i tempi di una volta – per Giunone –
quando ci voleva, per fare il mestiere, anche un po’ di vocazione?Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino;
li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno,
a stratracannare, a stramaledire le donne, il tempo ed il governo.Loro cercan là la felicità dentro a un bicchiere,
per dimenticare d’esser stati presi per il sedere;
ci sarà allegria anche in agonia col vino forte,
porteran sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte.Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone,
forse quella che sola ti può dare una lezione?
Quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie,
quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte;
ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette,
quando incasserai, delapiderai mezza pensione,
diecimila lire per sentirti dire “micio bello e bamboccione”.Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli –
in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori –
lì ci troverai i ladri, gli assassini e il tipo strano,
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese,
li condannerai a cinquemila anni più le spese;
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo,
se non sono gigli, son pur sempre figli,
vittime di questo mondo.[F. De André, La città vecchia (1965)]
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
[…]
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.[P. P. Pasolini, Il Pci ai giovani! (1968)]
De André invece si muove in un’altra direzione.
Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio,
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento,
se il fuoco ha risparmiato
le vostre Millecento;
anche se voi vi credete assolti,
siete lo stesso coinvolti.E se vi siete detti
“non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente”,
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco;
provate pure a credevi assolti,
siete lo stesso coinvolti.Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le pantere
ci mordevano il sedere,
lasciamoci in buonafede
massacrare sui marciapiedi;
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c’eravate.E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le “verità” della televisione;
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.E se credente ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare,
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte:
“per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti”,
“per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti”.[F. De André, La canzone del maggio, in Storia di un impiegato (1973)]
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Tutto questo non dovrebbe svilire la grandezza poetica di Fabrizio De André, né è mio intento sostenere che Pasolini ne sia migliore, moralmente parlando. I due autori hanno avuto alle spalle due storie diverse, oltre ad essersi formati in anni e luoghi diversi. Entrambi sono da annoverare tra i grandi del Novecento non solo italiano, ma mondiale. Una canzone come Inverno non ha nulla da invidiare ad una poesia in senso tradizionale. Esprime la fatica di una vita agreste e ancestrale, legata ancora ai ritmi delle stagioni e al loro eterno ritorno. Non poi così diverso da Pasolini.
Una somiglianza tra i due che è ben espressa dalla canzone con cui De André descrive il brutale omicidio di Pasolini, Una storia sbagliata. Come l’autore stesso spiega,
buona parte del senso e del valore della canzone sta prima di tutto nel suo titolo, cioè Una storia sbagliata, vale a dire una storia che non sarebbe dovuta accadere. Nel senso che in un clima di normale civiltà una storia del genere non dovrebbe succedere. [3]
Stelle in una notte buia.
Note:
[1] Informazioni tratte da N. Naldini, Cronologia in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude
[2] Informazioni tratte dalla pagina web di Wikipedia su Fabrizio De André
[3] Parole tratte dal sito web www.pasolini.net, citate da D. Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo
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