Si è affermato nel giro di pochi anni come uno dei maggiori poli del contemporaneo in Italia, il Palazzo Grassi di Venezia, gestito, come la sede di Punta della Dogana, dalla Fondazione Pinault. Ad ogni nuova stagione, genera sempre un certo clima di aspettativa nell’annunciare il proprio calendario espositivo e la presentazione della prima, grande personale in Italia di Luc Tuymans non ha deluso le aspettative. Curata da Caroline Bourgeois e visitabile fino al 6 gennaio 2020, la mostra propone 80 opere dell’artista belga, realizzate dal 1986 ad oggi.
Il titolo dell’esposizione, La Pelle, voluto dallo stesso artista, rievoca il romanzo di Curzio Malaparte, nella cui casa venne girato Il disprezzo di Jean-Luc Godard (1963), considerato da un cinefilo come Tuymans, uno dei migliori film della storia del cinema. Ma la pelle rimanda anche all’idea di una superficie sensibile, come può esserlo l’epidermide del corpo e pure la tela.
Ad accogliere i visitatori nel grande atrio centrale, vi è il mosaico di marmo Schwarzheide, dal nome di un campo di lavori forzati in Germania, che ricorda i disegni realizzati in segreto dai detenuti ed in seguito tagliati a strisce per sottrarli alla confisca. Il tema dell’olocausto ricorre in molte opere dell’artista, ma il suo è uno sguardo freddo, superiore, rispetto alla brutalità e alla perversione degli eventi del secolo trascorso. Uno sguardo che emerge in quadri come Secrets (1990), raffigurazione del volto imperturbabile dell’architetto del Reich, Albert Speer, o in Toter Gang (2018), immagine della porta d’accesso al bunker di Hitler a Berchtesgaden. Agli spettatori, però, non è dato sapere su quale lato della porta chiusa essi si trovino, conoscere, quindi, se siano protetti o prigionieri. È, questo, un espediente tipico di Luc Tuymans, il quale sottolinea così l’ambiguità di fondo di ogni immagine.
L’ingannevole attraversa tutta la creazione dell’artista, mescolandosi a quella sensazione di disincanto che portò la pittrice sudafricana Marlene Dumas a dire che «il suo lavoro parla di verità psicologiche universali e, al contempo, del significato specifico e limitato delle immagini in quanto tali, e di come rimettere in discussione questa comprensione». Pare, infatti, essere la domanda la vera coprotagonista delle opere di Luc Tuymans, che instilla dubbi e riflessioni nella mente del visitatore al quale, tuttavia, sfugge costantemente qualcosa. L’immagine evoca la realtà o solo una sensazione? Cos’è, davvero, la rappresentazione? Come si può raggiungere la verità, se le tracce di pennello sulla tela trasformano la percezione? Si può credere all’arte e alla sua figurazione?
Per mezzo di opere dalla debole saturazione cromatica e toni lividi e ovattati, Luc Tuymans ci conduce in un mondo in bilico tra realtà e rappresentazione, in cui tutto sembra chiaro, persino banale, ma di fatto si rivela sfuggente, elusivo. Un mondo in cui, per capirci qualcosa, non possiamo fermarci al velo superficiale, alla pelle, bensì indagare l’opera in ogni sua stratificazione.
Ben lontana dalla spettacolarizzazione della personale di Damien Hirst di due anni fa, La Pelle coinvolge lo spettatore in modo più sottile e pacato, con una successione di superfici a tratti povere e grezze in cui, in realtà, si dispiega il vero senso dell’essere umano.