C’è sempre qualcosa di estremamente affascinante nell’osservare la consacrazione pop post-mortem di un grande personaggio. Uomini che fino ad un attimo prima risultavano essere solo fantasmi di un passato lontano per la maggior parte delle persone vengono improvvisamente innalzati agli altari popolari e tutti ne piangono la mancanza, tutti improvvisamente ne provano nostalgia. Questo è accaduto recentemente anche a Fabrizio De André, di cui oggi si ricorda il compleanno (18 febbraio 1940). Complice di ciò lo sceneggiato Rai andato in onda questa settimana (13-14 febbraio), Fabrizio De Andrè, principe libero (guarda su RaiPlay), che tratta in forma romanzata la biografia del cantautore. Consacrato così alla cultura nazional-popolare Faber è ora sulla bocca di tutti con il volto di Luca Marinelli (le cui doti recitative rimangono indubbiamente eccellenti) e con una certa leggerezza da biopic da prima serata televisiva, pregna di romanticismo e riscatto morale finale.
La polemica nasce da un’osservazione di fondo imprescindibile: per conoscere De André non basta una ricostruzione cinematografica imborghesita. Bisogna ascoltare la sua musica, leggerne e rileggerne le parole, sentirne il tormento e lo slancio vitale, abbracciarne il grido anarchico e chiedersene il perché. Non a caso Faber odiava apparire in pubblico ed in particolare in televisione: era tramite la sua voce e le sue melodie che comunicava tutto ciò che c’era da comunicare. Lo schermo pone un filtro e soprattutto mitifica la persona: Fabrizio non voleva essere un mito, ma un cantastorie. Con il suo volto lontano dagli occhi, erano le parole a dover creare immagini stimolando l’immaginazione di chi ascolta.
La nostalgia di Fabrizio De André
Davanti a tanto bisogno di ricordare e a tanta sentita partecipazione sorge tuttavia spontanea una riflessione: De André manca a tutti, sia a coloro che ne sono sempre stati appassionati, sia a chi si avvicina a lui ora per la prima volta. Da cosa nasce questa nostalgia? Innegabile il fatto che una figura che ha così influenzato la storia della musica, ma anche della cultura, rimanga nel ricordo come un imprescindibile e continui a vivere tramite la sua arte nella quotidianità. La mancanza cela però qualcosa di ancora più profondo: avremmo bisogno di un nostro De André e non lo troviamo.
La grandezza di Faber era nella sua costante ricerca di realtà e concretezza. Nato da una famiglia borghese, ha sempre provato fastidio per la sua condizione di privilegiato, ribellandosi alle convenzioni sociali e morali e cercando verità ed autenticità tra le sozzure e le bassezze della Città Vecchia. Anarchico non tanto per ribellione politica quanto sociale e culturale, De André cercava il suo Cristo negli uomini e il senso della vita in una poesia che fosse tangibile.
La musica come ricerca
Fare musica per Fabrizio significava fare ricerca: i suoi sono quasi sempre concept album, che narrano storie e possiedono la forza dell’ideale. Ogni suo brano ed album ha una portata di novità sia dal punto di vista armonico che per la costruzione del testo. Come non ricordare la produzione dialettale impregnata di tradizione folklorica (Crêuza de mä), la creazione di un suo personale Vangelo nella Buona Novella, la rilettura dell’Antologia di Spoon River in Non al denaro, né all’amore, né al cielo?
Ogni storia cantata da De André sa di uomo. I brani auto-biografici sono pochissimi (Giugno ’73, Preghiera in Gennaio) ed infatti la tendenza del cantautore è quella di non raccontare la sua vita ma quella degli altri, in cui però anche lui, così come chi ascolta, possa riconoscersi. Le idee, le emozioni, le spinte di Faber sono evidenti e aleggiano in ogni brano, grazie alla capacità di elevare la concretezza dei quadri narrati all’universale. È questo che ci manca di Fabrizio, è questo che ci manca della sua musica.
De André e i nostri cantautori indie
Per quanto oggi il panorama musicale pulluli di cantautori, sembra a tratti che questi ignorino l’insegnamento dei grandi del passato. Il genere indie spopola e vanta, a partire dall’etichetta stessa, la sua indipendenza; eppure dopo un paio di canzonette rimane il vuoto. Ed è allora che si volge lo sguardo indietro e si cerca Faber.
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A volte verrebbe da chiedersi cosa avrebbe pensato De André del panorama musicale e culturale contemporaneo. Probabilmente avrebbe schifato l’immobilismo socio-politico, l’assenza di ribellione, la frenesia globale, la morte del ciclo delle stagioni e soprattutto della fantasia. Probabilmente sarebbe inorridito davanti alla comunicazione social in parole stringate e urlate al mondo senza più la dignità della sofferenza vera. Sicuramente avrebbe chiesto ai vari Lo Stato Sociale, TheGiornalisti, i Cani se pensino che la loro musica sopravvivrà all’hic et nunc da cui scaturisce e in cui muore. Si sarebbe poi quasi certamente ritirato in un borgo, uno dei pochi ancora sopravvissuti, e avrebbe impugnato la chitarra e raccontato la storia del paese con le sue proprie sonorità, da ballo e festa, senza synth ed effetti da loop station, con voce profonda e musica folklorica.
Ecco perché Faber ci manca: c’è in noi, per quanto recondito, il desiderio di un’arte che sopravviva all’immediato e che ci sveli quel che di noi può sopravvivere anche domani. Le parole e le musiche di De André scavano nella pietra della tradizione e raccontano storie di ieri che sono anche di oggi: siamo tutti il suonatore Jones, siamo tutti Marinella, siamo tutti il Pescatore e Dolcenera ed abbiamo il desiderio di muoverci in direzione ostinata e contraria.