Di frequente il termine “cantautorato italiano” viene confuso con una serie di aggettivi così strumentalizzati da essere null’altro che un accumulo di etichette: politico, radicale, anarchico, sociale, di protesta, e chi più ne ha più ne metta. Giorgio Gaber, il creatore del teatro-canzone, col viso storto da una smorfia, chissà quanto si sarebbe preso in giro per quel benedettissimo “la libertà è partecipazione”.
Eppure la sua vita si è risolta interamente nello sforzo di comunicare ad un pubblico il proprio amore per la realtà, di porre alcuni paletti critici entro cui partecipare in collettività alla riflessione sulla nostra meschinità. E questo impegno d’una vita non è figlio del teatro-canzone, ma scorre sin dal principio. Per traguardare pezzi come Un’ idea, Quando è moda, La libertà, Io se fossi Dio, il percorso inizia col disco L’asse di equilibrio del 1968.
Gaber nasce come cantante e chitarrista jazz e rock & roll a Milano nella metà degli anni Cinquanta, e già nei primi anni Sessanta entra nel mondo della televisione, partecipando a Sanremo nel 1961. Sono gli anni d’oro di “mamma Rai”, come sanno anche gli appartenenti alla generazione più giovane: nel piccolo schermo vanno in onda i grandi varietà, le rivisitazioni dell’Eneide e dell’Odissea, le interviste di Enzo Biagi, e (ultimo non per ordine d’ importanza) il mitico 90° Minuto. A proposito del mondo televisivo d’allora il Gaber degli anni ’90 ne rimpiangerà l’elevato tasso qualitativo, dicendo:
«Direi che io sento il bisogno di qualche censura: la censura del cattivo gusto, della volgarità, del falso sentimentalismo. Questo ovunque lo sentirei. Difficile da ottenere… Ma magari, con un po’ di sforzo…»
Successivamente l’artista milanese si allontana dai canoni della canzone italiana dettati da Canzonissima e Sanremo, cercando una strada diversa: un nuovo rapporto col pubblico, impossibile da identificare per mezzo della TV, un modo di conciliare la leggera ironia della canzone tradizionale con l’esigenza di un’impegnata riflessione sociale.
Domina infatti la temperie del Sessantotto, per cui a ciascun intelletto è richiesto di schierarsi nettamente in una fazione: Gaber sente il richiamo, e risponde a modo suo con L’asse di equilibrio, senza stare da una parte precisa. Il disco è godibilissimo proprio per questa sua natura ambigua, che procede per toni contrastanti.
I primi pezzi (Una canzone come nasce, Un uomo che dal monte, Parole parole, Canta che ti passa la paura) si potrebbero ricondurre all’anima più tradizionale di Gaber, ossia alla canzone leggera che oscilla fra cabaret italiano e pop. Ma dal brano successivo, che intitola l’’album fino alla conclusiva La corsa si notano – molto più nei testi, ovviamente, che nella musica – i cuori tematici che porteranno alla forma del teatro canzone. Specialmente Eppure sembra un uomo ha le radici filosofiche dei futuri spettacoli (per esempio Polli d’allevamento, Dialogo tra un impegnato e non so, E pensare che c’era il pensiero) nell’affermazione
«Nasce fragile e incerto, poi quando ha la ragione si nutre di soprusi e di violenza, e vive e non sa il perché della sua esistenza».
L’ironia di Suona chitarra, La corsa e La Chiesa si rinnova sferzano con riso amaro il mondo dello spettacolo, dell’economia e del clero più bigotto.
«E la chiesa si rinnova
per la nuova società.
E la chiesa si rinnova
per salvar l’umanità.Bisogna dare atto a questi signori
le cose più urgenti le han rese migliori
e dopo tanti anni che aspettavamo invano
la messa finalmente si dice in italiano».
Pertanto, L’ asse di equilibrio pone le basi per la nascita di un nuovo genere artistico-musicale. Pensateci bene, basta un po’ di immaginazione: a inizio anni Settanta quanti erano i cantautori cosiddetti “di protesta”? De Gregori, De André, Guccini, sono solo i più famosi, ma chissà quanti altri musicisti (anche solo amatoriali) miravano all’epoca ad emulare le gesta dei cantori impegnati più in vista.
Attorno alle figure sopra citate – fra loro interdipendenti ed originali, sia chiaro – l’artista milanese sancisce un nuovo modello culturale, quello del teatro-canzone; così articolato e complesso da essere ancora oggi difficilmente ripreso dalla scena musicale italiana contemporanea.
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Dunque, il teatro-canzone di Gaber è un’innovazione perché ridipinge l’aggettivo “sociale”, torna a caricarlo del valore più vero e libero, lontano da ogni declinazione partitica. Il suo linguaggio poi non è elitario: attinge da ogni esperienza umana e perciò si cristallizza in forme vivaci, intense, colorate ancora di più dalla gestualità inconfondibile del naso che si allunga quasi fino al mento, per poi tornare in una linguaccia di stanchezza… Insomma: lo stesso corpo di Gaber è quello di un attore, che recita la perdita della sua generazione (la stessa che scende in piazza a vent’anni e a cinquanta magari porta i figli a messa, che dopo una giornata in Borsa si rilassa con il più sofisticato massaggio etnico di tendenza). Una crisi che si riflette in scelte comunicative di grande impatto, tanto nel linguaggio corporale quanto in quello verbale.
Tornare a dare senso alle parole della realtà a noi comune, scrostandole dei luoghi comuni stratificatisi nel corso degli anni, è un vero e proprio atto intellettuale.
Andrea Piasentini
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