La maggiore difficoltà nel cercare di ricostruire la cifra dell’opera beniana, di quell’eccesso dell’arte e dell’umano che si proponeva d’inseguire, risiede forse nel fatto che tale eccesso non è mai stato teorizzato o sistematizzato quanto messo in atto. È qualcosa di estraneo all’episteme occidentale il rifiuto del grafocentrismo, ed è tuttavia un fatto acclarato che nessun manuale o biografia potrà mai restituire la chiave dell’opera di Carmelo Bene: ciò per il semplice motivo che tale opera aveva una dimensione squisitamente fenomenica.
La realizzazione dell’atto
L’atto della rappresentazione è l’essenza stessa della fugacità: non ne resta traccia una volta compiuto, ed è compiuto senza che ci sia a priori una traccia; il rifiuto di costruire un qualsivoglia sistema comporta il rifiuto della ripetizione, il rifiuto della progettazione e dell’azione.
L’atto è la realizzazione di uno svuotamento impossibile da teorizzare perché sfuggente e sfuggito a ogni dimensione concettuale, perfino dello stesso attore, che diviene macchina attoriale in quanto privato di volontà conscia e perso nella mera esecuzione. Oblio del concetto e oblio di sé, realizzare e realizzarsi sul palcoscenico in maniere sempre nuove, sciolte da ogni vincolo.
La ricerca del vuoto
Ogni modalità è modalità di stato, ripetiamo citando, aggiungendo che stato in questo caso è anche participio passato. L’atto supera l’uomo e ciò che è stato. Questo rifiuto del concetto per l’azione è estraneo, dicevamo, all’episteme occidentale: è infatti qualcosa che si lega alle codificazioni corporali delle posizioni della meditazione. È qualcosa che risale alle origini della filosofia orientale, è alla base dell’induismo e dal taoismo: la ricerca del vuoto.
Vuoto che poi è diventato noluntas, rielaborato in epoca più o meno recente da Schopenhauer e Cioran, la cui ricerca ha una forte influenza sull’attività beniana. Oltre alla citatissima agape schopenhaueriana, distacco in presentia – sorta di edulcorazione intellettuale dell’ascetismo induista – dalla volontà e da ogni interazione col mondano, riappare spesso in Carmelo Bene lo sprezzo da apolide metafisico, talvolta anche citato apertamente.
Sprezzo verso la dimensione concettuale filosofica, che in Cioran si esplicitava in quella poeticità formale che ne ha fatto la fortuna, e in Bene in una traduzione in prassi costantemente in-creativa, decostruente e decostruita, quasi a suggerire una naturale prosecuzione di quella fuga dalla vita che era per il giovane Cioran non la filosofia ma l’atto stesso dello scrivere, la sola alternativa a spararsi un colpo in testa, come avrebbe raccontato.
L’atto beniano
In questo senso la grandezza di Carmelo Bene risiederebbe nell’aver costruito una dimensione espressiva che rifugge dalla creazione, non si concede alla posterità ed esautora sé stessa mentre si compie. L’atto beniano, quella prassi atta a sfuggire alla volontà, a rincorrere il mancato, è un’introduzione di novità nell’istituto stesso della ripetizione, il teatro. Si agisce senza pensare e dunque senza sapere: ciò che si cerca è una trascendenza tramite l’agire: non possiamo fare a meno di pensare all’influsso orientale, che ha nella codificazione del movimento, tanto nelle pratiche yogiche quanto nel teatro, un’insistente ricorrenza.
C’è tuttavia una differenza fondamentale. L’atto beniano non è un mezzo per uno scopo, quanto se mai un mezzo senza scopo, o meglio, un mezzo per non avere più scopi. Liquidato il linguaggio con Lacan e Derrida, non rimane alcun messaggio da comunicare, e dunque bisogna comunicare l’incomunicabile, l’inesprimibile vuoto, l’assenza di sé: un’assenza di provenienza asiatica che in occidente ha avuto perlopiù solo rielaborazioni intellettuali.
Carmelo Bene ne ha compreso l’abissale fascino, e ha cercato di esperirla e restituirla. Non tramite il morto scritto, ma tramite l’atto: il solo mezzo possibile. Il motivo della sua grandezza e la principale causa di fraintendimento della stessa.
Michelangelo Franchini
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