Non lasciatevi ingannare dal titolo. La mia vita da Zucchina, un titolo allegro con una locandina allegra dove in primo piano c’è un bambino di 9 anni fatto di plastilina con i capelli blu che vi sorride. Tutto lascia presagire ad un’ora divertente.
Poi comincia il film. E se pensavate di guardare un leggero film d’animazione vi accorgete di aver sbagliato di grosso.
Nella prima scena vediamo il protagonista, Zucchina, che gioca in soffitta. Cosparse intorno a lui delle lattine vuote che scopriremo subito dopo essere della madre alcolizzata. In seguito ad un pasticcio di Zucchina, la madre arrabbiata e ubriaca sale in soffitta per punirlo e il bambino, spaventato, nel chiudere la porta della sua stanza-soffitta colpisce la madre in testa che cade ruzzoloni giù per le scale. La madre muore.
Zucchina viene trasferito in una casa-famiglia dove pian piano farà amicizia con gli altri problematici bambini.
Chi figlio di genitori drogati, chi di deportati, chi vittima di abusi. Ci vengono presentati uno per uno i membri di questa casa-famiglia e sembrano vittime di reali fatti di cronaca e non più semplici pupazzetti in stop-motion.
Tuttavia c’è una luce in fondo al tunnel. Chi gestisce la struttura non sono persone senza scrupoli, come vorrebbe il cliché alla Oliver Twist, ma anzi sono persone amorevoli che hanno davvero a cuore il benessere degli sfortunati ospiti.
La vita di Zucchina scorre relativamente tranquilla tra le mura della casa-famiglia fin quando non arriva Camille, una ragazzina di cui si innamora. Da qui cominciano le prime domande sulla sessualità che i bambini si fanno tra di loro e a cui rispondono come possono. Un tema molto delicato, ma naturale che il regista Claude Barras sa gestire e affrontare guardando la sessualità con gli occhi di un bambino che ancora non sa nulla.
La pellicola è ricca di momenti toccanti, ma sa dosare la cruda realtà della vita a momenti spensierati e soprattutto di speranza. Speranza di venire adottati e ricominciare una nuova vita. Speranza di trovare qualcuno che li ami incondizionatamente. Commovente il momento in cui una collaboratrice dell’istituto dà alla luce un bambino e tutti gli orfani le chiedono se un giorno verrà abbandonato anche lui come loro. Nel momento in cui la mamma del piccolo assicura che non lo lascerà mai, piovono le domande dei suoi piccoli orfani:
«Nemmeno se fosse bruttissimo?
Nemmeno se puzza?
Nemmeno se piange sempre?
Nemmeno se è stupido? »
E così via. Una serie di tenere domande che hanno bisogno di una conferma, come a voler cercare un po’ di pulito in un mondo per loro sporco.
Dall’Autobiografia di una zucchina dello scrittore Gilles Paris, Barras ha saputo dar voce a questi personaggi attraverso il fascino dello stop-motion che rimane una delle tecniche cinematografiche più minuziose e d’impatto visivo di sempre che gli è valso la candidatura all’Oscar come miglior film d’animazione del 2017.
Una stagione florida per i cartoni animati in stop-motion che propongono storie sempre più mature con dei livelli di lettura che solo un adulto può capire, molto lontani dal modello tradizionale e più edulcorato proposto da Disney.