La crisi economica insieme a quella dei rifugiati, i referendum in Olanda e Regno Unito, tanto quanto la crescita esponenziale dei movimenti populisti euroscettici, hanno determinato un dibattito pan-europeo sia nell’arena mediatica sia in quella accademica sulla mancanza di legittimità democratica dell’Unione Europea. Il tema non è certo nuovo e anche noi abbiamo dedicato ad esso le nostre riflessioni.
Tra le cause di questa insoddisfazione profonda dei cittadini nei confronti di Bruxelles, un ruolo di fondamentale importanza indubbiamente è giocato dalla percezione e della’ idea dell’UE come un grande salvadanaio nel quale si mettono i propri risparmi, mentre, a beneficiarne, è qualcun altro. Se analizziamo, ad esempio, alcune delle ragioni che sono alla base del Brexit, troviamo che, tra i sostenitori del Leave, uno degli slogan di maggiore successo è stato quello dell’idraulico polacco, del fisioterapista spagnolo, del lavapiatti italiano e degli immigrati che bussano a Dover, e che sfruttano il sistema inglese e beneficiandone sulle spalle dei lavoratori britannici che pagano le tasse. La mobilità intra- ed extra-europea è stata percepita dal popolo inglese come una minaccia diretta al proprio sistema di benessere e ai propri diritti sociali. La classe media inglese, gli operai e i lavoratori delle campagne, indeboliti dalle politiche neo-liberiste e dal progressivo ritirarsi dei servizi di previdenza sociale un tempo garantiti dallo stato, hanno riversato la propria rabbia contro quell’Unione Europea che permette la libera circolazione dei cittadini nei propri territori, abolendo de facto ogni frontiera, e che impone o vuole imporre agli Stati membri l’obbligo di accettare quote di migranti provenienti da paesi terzi.
L’ottusità di queste posizioni, potremmo dire, mostra la cecità politica di chi vede la pagliuzza nell’occhio dell’altro e non si accorge della trave nel proprio. Ignorando la responsabilità di decenni di politiche volte a smantellare lo stato sociale e denazionalizzare tutto ciò che era pubblico nel nome del libero mercato, il popolo britannico ha preferito vedere nell’Unione Europea la responsabile dei suoi mali.
Per contro, le istituzioni europee hanno reagito con forza e sin da subito si è alzata con forza la voce del gruppo dei socialisti e democratici i quali, attraverso il presidente Gianni Pittella, hanno manifestato la necessità di rilanciare il progetto europeo. In particolare, è tornata con sempre più forza la proposta di un nuovo patto sociale europeo, evocando così un ambizioso progetto della Commissione Europea. Il 9 settembre 2015, infatti, il presidente Jean-Claude Juncker nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato al Parlamento Europeo, aveva annunciato la necessità di un Pilastro europeo dei diritti sociali, affermando:
Dobbiamo intensificare i lavori per un mercato del lavoro equo e veramente paneuropeo. […] Nel quadro di tali sforzi, voglio sviluppare un Pilastro europeo dei diritti sociali, che tenga conto delle mutevoli realtà delle società europee e del mondo del lavoro e che possa fungere da bussola per una rinnovata convergenza nella zona euro.
Il progetto di un Pilastro europeo dei diritti sociali, di cui una prima stesura è stata presentata l’8 marzo di quest’anno, ha come scopo orientare le politiche in una serie di settori essenziali per il buon funzionamento e l’equità dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale negli Stati membri partecipanti. Questo obiettivo emerge in modo quanto mai necessario per gli stati dell’Eurozona, il cui successo dipende in gran misura dall’efficacia dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale nazionali e dalla capacità dell’economia di assorbire e adattarsi agli shock. Pensare ad un sistema di diritti sociali europei significa quindi pensare ad un Unione che abbia come primo obiettivo la tutela dei propri cittadini e che quindi combatta ogni forma di dumping sociale.
Ma qual è il ruolo dell’Unione europea in questo settore? Nel rispetto del principio di sussidiarietà spetta agli Stati membri la competenza principale in materia di politica sociale e del lavoro, che comprende il diritto del lavoro e l’organizzazione dei sistemi previdenziali. Tale competenza è riconosciuta nei trattati dell’UE nei quali, sin dalla costituzione della Comunità economica europea, è previsto che l’Unione sostenga e completi l’azione degli Stati membri, sulla base dell’articolo 153 del TFUE. L’azione a livello dell’UE riflette i principi fondanti dell’Unione e si basa sulle convinzioni che lo sviluppo economico deve tradursi in progresso sociale e maggiore coesione e che la politica sociale deve essere concepita come fattore produttivo in grado di ridurre le disuguaglianze, massimizzare la creazione di posti di lavoro e far prosperare il capitale umano dell’Europa.
Capiamo quindi che il progetto di un Pilastro europeo dei diritti sociali può essere visto come la soluzione ideale che abbia come obiettivo il mantenimento delle prerogative nazionali in tema di gestione del proprio sistema di welfare, ma che allo stesso tempo “obbliga” gli stati membri a coordinarsi tra loro al fine di garantire ai cittadini un sistema di garanzie unico. L’obiettivo è dare vita ad un “acquis sociale“, ossia un corpus di norme sociali attualmente vigenti nell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea, che vincoli gli stati membri a cooperare orizzontalmente tra loro per garantire ai propri cittadini le protezioni necessarie ed evitare concorrenza sleale tra stati membri.
Il progetto è indubbiamente ambizioso ma la direzione è quella giusta. I populismi e i movimenti neo-nazionalisti possono essere sconfitti solo nel momento in cui l’Unione Europea smette di perseguire quelle politiche di austerità neo-liberiste che portano solo a conflitti sociali e malessere tra i propri cittadini. Al contrario, un progetto di coordinamento e allentamento dei rigidi vincoli del Patto di Stabilità e Crescita, una politica sociale comune e il progetto di un Pilastro europeo dei diritti sociali sono gli strumenti con cui l’UE può smarcarsi dalle accuse che le vengono rivolta e mostrarsi, al contrario, campione e unica soluzione possibile alle sfide che la contemporaneità ci pone dinanzi.
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