Nella Grecia del V sec. a.C. si sviluppò una tendenza culturale che in quel periodo ebbe grandissimo vigore, ma che in seguito si spense per essere poi quasi dimenticata dagli sviluppi della filosofia successiva.
La storia – non è una novità – viene scritta dai vincitori e i vinti, più o meno giustamente, sono condannati all’oblio e all’infamia: questa sorte è toccata anche ai sofisti. Così, nella storia della cultura occidentale, il termine “sofista” ha assunto una connotazione negativa, essendo i sofisti stati sconfitti da Platone, che è unanimemente considerato il padre della nostra tradizione filosofica e culturale.
Io credo invece che dalla lezione sofistica qualcosa da imparare lo abbiamo ancora oggi. I temi, tipicamente sofistici, che a mio avviso potrebbero essere di grande attualità, in grado di parlare anche al presente e che quindi andrebbero riesumati, sono tre: il relativismo e il criterio dell’utile; il problema del linguaggio; la dinamica individuo-società.
L’uomo misura.
L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono come sono, di quelle che non sono come non sono.
Questa è la celebre tesi dell’uomo misura, presente nel trattato Verità del filosofo Protagora di Abdera (490 a.C ca. – 420 a.C. ca.), del quale si sono conservati solo alcuni frammenti. Questa tesi può prestarsi a molte letture, ma indubbiamente quella relativista è la più calzante: in quest’ottica la tesi vorrebbe significare che la conoscenza dipende sempre dalle circostanze e dai soggetti conoscenti, privando di senso ogni discussione intorno ad una presunta verità unica ed universale. In altre parole: la verità è il rapporto che ciascun uomo crea, di volta in volta, con la realtà che lo circonda.
Considerando la verità come unico criterio, la tesi protagorea (insieme ad ogni tesi relativistica), cadrebbe nel solipsismo – se fosse vero che ciascun individuo è misura del proprio universo di sensazioni e di giudizi, allora ciascun individuo intratterrebbe con le cose un rapporto la cui verità-realtà non può essere contestata da altri; ma la verità non è l’unico criterio che regola i pensieri e le azioni umane, in particolare un altro criterio è quello dell’utile – tutti i giudizi sono veri, ma alcuni sono più vantaggiosi di altri. L’utile varia di situazione in situazione e il sofista, che si vuole porre come nuovo insegnante dei Greci, ha il compito di insegnare ad individuare, volta per volta, cosa sia più vantaggioso per tutti – Protagora insegna a giudicare bene in base alle circostanze.
Essere, pensiero e linguaggio.
Gorgia dice che niente è; e se è, è inconoscibile; e se anche è ed è conoscibile, tuttavia non si può mostrare ad altri.
Questa è la famosa tesi tripartita, elaborata da Gorgia di Leontini (485 a.C. ca. – 375 a.C. ca.) nel trattato Sul non essere o sulla natura. Tale tesi, inverosimilmente provocatoria, si presta anch’essa alle più svariate letture – sicuramente essa contiene una grossa carica di ironia. Per quanto mi riguarda, io voglio avallare la lettura di Mauro Bonazzi, docente di storia della filosofia antica all’Università degli Studi di Milano, che interpreta la tesi in direzione dialettica: gli argomenti portati da Gorgia sembrano voler dimostrare le assurdità a cui portano le tesi dei suoi avversari, gli Eleati – Gorgia sembra invitarci a prendere atto della complessità dei problemi, attaccando le pretese fondazioniste sia della filosofia che del senso comune: in questione non è la realtà in sé, quanto la pretesa che la realtà abbia delle strutture invarianti e che l’uomo possa conoscerle.
Come detto, l’obiettivo polemico sono gli Eleati, cioè Parmenide, Zenone e Melisso, il cui cavallo di battaglia era la stabile immutabilità dell’essere, contrapposta alla varianza dei fenomeni, e la sua presunta coincidenza con il pensiero e il linguaggio: se le cose stessero così, si dovrebbe sostenere che l’essere possa essere conosciuto ed espresso a parole. È proprio questo che Gorgia vuole mettere in questione: la convinzione che la realtà sia qualcosa di ontologicamente, logicamente e temporalmente indipendente dall’uomo; l’idea che la conoscenza si risolva nell’apprensione oggettiva di tale struttura indipendente; la fiducia nel fatto che il compito del linguaggio non sia altro che il veicolare questa conoscenza. Una conseguenza fondamentale della tesi tripartita è che così Gorgia ha liberato il linguaggio da ogni pretesa ontologica, da ogni presunta corrispondenza metafisica con la realtà: il logos non è un riflesso delle cose, ma il discorso ha una sua autonomia, con dei limiti e delle potenzialità.
La parola è un grande sovrano, che con un corpo piccolissimo e invisibile compie imprese massimamente divine: sa calmare la paura, eliminare il dolore, suscitare la gioia, sollevare la pietà.
In Gorgia, a differenza degli Eleati, non è più presente una “vera realtà divina”, postulata al di là del mondo delle apparenze: ci sono solo i fenomeni e le opinioni incerte su di essi degli uomini. Ogni opinione è costitutivamente ingannevole, in quanto incapace di rappresentare la realtà, e questo inganno si configura come la condizione umana. Il vero encomio è dunque del logos, che è in grado di conquistare, ingannandola, l’anima, permettendo di costruire una relazione con la realtà delle cose e con la realtà del nostro essere che altrimenti non si avrebbe.
Per la sofistica il logos gioca appunto un ruolo cruciale, in quanto base della retorica, che è l’arte del parlare bene e, dunque, della persuasione. Tradizionalmente la retorica è stata messa in opposizione alla filosofia, ma si tratta di una opposizione artificiosa: il ricorso alle emozioni compone sì gran parte del lavoro dei sofisti, ma è anche vero che il loro impegno è rivolto all’elaborazione di argomentazioni rigorose, come dimostra il caso della tesi tripartita di Gorgia. Il logos non esprime la verità nel senso di una rappresentazione oggettiva e vera della realtà, ma esso è sempre soggettivo, prospettico, rappresentante un punto di vista, un’opinione – il logos ha il compito di dare un senso alla realtà.
Physis e nomos.
Antifonte di Ramnunte (480 a.C. ca. – 410 a.C. ca.) fu un personaggio di grande rilievo sulla scena politica ed intellettuale di Atene. Riprendendo le ricerche anatomiche di medici e scienziati, egli procedette ad una classificazione delle varie membra e organi del corpo, concludendone una sostanziale uguaglianza biologica degli uomini. Questa uguaglianza però non può essere in grado di porre le basi per un’uguaglianza politica, ma al contrario è molto problematica: significa che gli uomini hanno gli stessi bisogni, creando così una situazione potenzialmente conflittuale in cui tutti desiderano le medesime cose e ricercano il proprio interesse contro quello degli altri.
A questi studi sulla physis umana si accompagnano quelli sul nomos (l’insieme di leggi, usanze e tradizioni): esso è un vincolo imposto che cerca di regolare ciò che la natura ha lasciato senza regole, impedendo ai singoli di provvedere ai propri bisogni. Questo tentativo di domare la physis risulta ovviamente dannoso, poiché impedisce di seguire il proprio utile, che dipende dal come siamo fatti, dalla nostra natura. Inoltre il nomos, nonostante il suo carattere coercitivo, non è nemmeno in grado di prevenire la sua propria violazione, risultando doppiamente svantaggioso per chi rispetta le leggi. Il nomos dunque impedisce di seguire i propri bisogni e, al tempo stesso, non è in grado di tutelare chi in esso si impegna. Attraverso un’analisi imparziale della realtà, degna del miglior realismo politico, Antifonte ricava una verità che lascia poche illusioni circa la possibilità di creare una società giusta e coesa: l’uomo si trova stretto da una parte dai bisogni naturali e dall’altra dalle costrizioni sociali. L’unico modo per ovviare ai limiti della politica e del nomos è utilizzare quella risorsa a disposizione degli uomini, seppur scarsamente sfruttata: l’intelligenza.
Cosa hanno da insegnarci oggi i sofisti?
Come accennavo all’inizio, credo che le riflessioni dei sofisti godano di grandissima attualità e possano parlare al tempo presente.
In primo luogo, la professione di relativismo di cui è impregnata la tesi dell’uomo misura di Protagora si trova in accordo con le più moderne teorie.
Il relativismo, come dice proprio la tesi protagorea, ha in primo luogo matrice fisico-biologica: un uomo ed un cane, in virtù della propria costituzione, hanno delle percezioni, che costituiscono l’immagine del mondo, radicalmente diverse tra di loro. L’uomo è misura di tutte le cose – il mondo ci appare così come lo vediamo proprio in quanto umani dotati di un certo apparato sensoriale, non per come è in sé.
Anche il criterio dell’utile potrebbe avere una sua forza oggi: in virtù dell’assenza di punti di riferimento – situazione caratteristica della nostra epoca – come scegliere tra l’infinità di dati contrastanti sul medesimo fatto? Forse, anziché chiedersi quale sia l’interpretazione corretta, bisognerebbe provare a chiedersi quale sia quella più utile – che significa: più adeguata al contesto.
Sono convinto che anche la riflessione di Gorgia sul linguaggio possa avere una sua validità oggi. Indubbiamente il linguaggio è una componente fondamentale, se non essenziale, del nostro essere umani: Heidegger addirittura scrisse che il linguaggio è la casa dell’essere.
La frattura insanabile tra essere, pensiero e linguaggio, dimostrata da Gorgia nella sua tesi tripartita, avrebbe dovuto soffocare sul nascere la grande costruzione della metafisica occidentale: il debito di Platone nei confronti degli Eleati è smisurato e proprio sull’idea della stabilità dell’essere, contrapposta alla mutevolezza dei fenomeni, si è sviluppata tutta la nostra cultura. Abbiamo visto che Gorgia fa implodere questa tesi: muovendo dagli assunti su cui poggia, ha tratto delle conclusioni paradossali – niente esiste; se anche qualcosa esiste, è inconoscibile; se anche esiste ed è conoscibile, è incomunicabile. Se Platone non fosse stato così geniale, la nostra storia sarebbe stata diversa. Per arrivare a trovare degli argomenti così brillanti contro il platonismo abbiamo dovuto aspettare Nietzsche prima e poi, in maniera più sistematica e compiuta, Heidegger.
Per quanto riguarda l’eloquenza e l’importanza della parola, è sotto gli occhi di tutti come, nella società della comunicazione di massa, questo sia assolutamente vero: la parola sa calmare la paura, eliminare il dolore, suscitare la gioia, sollevare la pietà. Insomma, saper usare bene il linguaggio significa poter governare e la storia più o meno recente non fa che confermare ciò.
Infine le riflessioni di Antifonte sul rapporto tra natura e legge – vale a dire tra individuo e società – possono essere messe in relazione a tutto il dibattito che è oggetto della filosofia politica e il suo conseguente riflesso nella prassi: bisogna lasciare più libertà agli individui ai danni di un potere indebolito o bisogna accordare maggior forza al potere a scapito di una riduzione della libertà degli individui? È chiaro che un tema del genere è quello che muove ancora oggi le masse durante le elezioni. Tuttavia Antifonte non si esprime, ma constata: da un lato c’è la naturalità dell’uomo, dall’altra il suo vivere sociale. Egli non dice cosa si dovrebbe fare nella prassi politica, ma compie un’analisi realistica dello stato di cose.
Per secoli i sofisti sono stati messi da parte, poiché ci avevano già pensato Platone ed Aristotele a sconfiggerli. Nell’epoca moderna, quando si è iniziato a mettere in questione i pilastri su cui poggia la cultura occidentale, il messaggio dei sofisti è tornato a poter offrire soluzioni, ma solo a chi ne è in cerca. Avvicinandomi allo studio di questi strani, trascurati, eterogenei pensatori fuori dalle righe, ho avuto modo di poter svolgere delle riflessioni sull’età contemporanea – molto più che leggendo autori contemporanei: forse la loro epoca non era poi così diversa dalla nostra.
Fonte: Mauro Bonazzi, I sofisti, Carocci editore, Roma 2010