Il 26 marzo 1990, Jack Lemmon in collegamento via satellite da Mosca annunciò con la bellissima Natalya Negoda il vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero. Un nutrito gruppo di giornalisti in sala stampa trattenne il fiato, i candidati sorridenti intrecciarono le mani in segno di nervosismo. Quando la voce squillante della Negoda pronunciò con accento buffo quel Cinema Paradiso non ancora Nuovo nel titolo, un boato incredibile si levò in sala. Vinceva l’Italia, trionfava Giuseppe Tornatore. Emozionatissimo e impacciato nei suoi trentaquattro anni d’età, il regista siciliano salì sul palco con il produttore Franco Cristaldi che, senza esitazione alcuna, gli rubò la scena ringraziando se stesso per aver realizzato un film talmente bello da sembrare irreale. Più tardi, da solo e con la statuetta in mano, Tornatore dichiarò di essere onorato del riconoscimento ottenuto, indicandolo come punto di partenza e stimolo per tutto il cinema italiano, affinché potesse uscire dal torpore cui era relegato da tanto, troppo tempo.
E se c’è un autore che ha saputo risollevare le sorti della celluloide nostrana, risvegliando le coscienze e le menti dello spettatore, quello è stato proprio Giuseppe Tornatore. Cantore di una realtà semplice, di un’Italia nostalgica e amara, il regista bagherese ha saputo farsi amare dal pubblico in maniera onesta, raccontando le illusioni, le fantasie e le speranze di individui intenti ad affrontare le piccole difficoltà della propria esistenza.
Approdato al grande schermo dopo essere passato per il teatro, il genere documentaristico e la sceneggiatura, Giuseppe Tornatore ha con la propria regione d’origine – vero punto cardinale della sua produzione – un rapporto particolare, che stigmatizza con una frase significativa e schietta: «Ho un mio personalissimo teorema, amo la Sicilia, ma per esprimere tutto il mio amore ne devo stare lontano». Eppure i primi successi li ottiene proprio girando nella sua Bagheria, scoprendo e indagando gli aspetti più profondi della terra siciliana. Cronaca di una festa per il Santo Patrono, C’era una volta un paese in festa, Scene di morte a Bagheria e Le minoranze etniche in Sicilia, gli valgono un premio al Festival di Salerno e l’apprezzamento della RAI, che lo vuole regista di programmi come Ritratto di un rapitore – Incontro con Francesco Rosi e Scrittori siciliani e cinema – Verga, Pirandello e Sciascia. Trasferitosi a Roma, trae linfa vitale dall’ormai lontana Hollywood sul Tevere per aiutare Giuseppe Ferrara a realizzare il maestoso Cento giorni a Palermo che, ripercorrendo la vicenda del generale Carlo Alberto della Chiesa, lo porta nuovamente nella sua terra madre vista e interpretata dalla maestria di Lino Ventura.
L’esordio dietro la macchina da presa per Giuseppe Tornatore arriva nel 1986, quando decide di mettere in scena la vita e i traffici del boss Raffaele Cutolo, detto “o’Professore”, camorrista con inquietanti rapporti con servizi segreti e politica. Interpretato da un grandissimo Ben Gazzarra, il film frutta a Giuseppe Tornatore un Nastro d’Argento e una condanna per querela presto ritirata, segnando il suo ingresso trionfante nel mondo della Settima arte. Di certo mai si sarebbe aspettato, a soli trent’anni d’età, che di lì a qualche anno il salto di qualità sarebbe stato grande, con il passaggio dal palco dei Nastri a quello del Dorothy Parker Pavilion di Los Angeles. Ciò che agli americani piacque di Nuovo Cinema Paradiso fu la malinconica dolcezza del piccolo Totò (il perfetto esordiente Salvatore Cascio) e la passione del poiezionista Alfredo (un superbo Philippe Noiret), ma soprattutto l’ode al cinema inteso come arte popolare, capace di riempire le sale e la vita delle persone. Se la scena finale, con la raccolta indimenticabile dei baci più belli del grande schermo, ha commosso anche lo spettatore più reticente, sarebbe impossibile negare che in tutto il film si respira il fumo, il sudore e l’affollamento della sala parrocchiale, che Tornatore rende luogo paradisiaco perché teatro di amicizia e sentimenti puri, un crocevia in cui s’incontra un’Italia nuova, mutata nei costumi ma ancora semplice nell’animo. Le musiche di Ennio Morricone fanno da contorno a un film che si rivela perfetto nella sua dolcezza e segnano l’inizio di un sodalizio importante tra il regista e il compositore che tornerà a firmare la colonna sonora de La leggenda del pianista sull’oceano, toccante kolossal interpretato da Tim Roth e tratto dal monologo di un insospettabile Alessandro Baricco non ancora del tutto radical chic.
Nel 2000 arriva sugli schermi una silenziosa Malèna, storia siciliana dai contorni foschi che lancia Monica Bellucci come sex symbol destinato a turbare il sonno e che per atmosfera (con le dovute cautele) può essere accostato a La sconosciuta, pellicola grazie a cui ottiene un David di Donatello e un Audience Award Best Film all’European Film Award. Arrivato a rappresentare l’Italia agli Oscar 2008, il film altro non è che l’ennesima dimostrazione del talento di Tornatore nel costruire storie dal sapore genuino, in un’epoca in cui tutto diviene spettacolarizzazione oltre il limite. L’utilizzo di attori internazionali (e La migliore offerta è solo l’ultimo esempio), l’importanza dei temi musicali e la spontaneità della narrazione fanno di Tornatore un regista artigiano, sapiente cantore di storie, sentimenti ed emozioni.
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Denny Boodman T.D. Lemon Novecento è un pianista anzi, è il pianista. La musica non la compone, non la suona, la vive. È nato su una nave, il Virginian, e deve il suo primo nome a Danny Boodman, il marinaio che lo trovò in fasce. Novecento non ha mai suonato il piano, ma si sa, le cose avvengono per caso, e per caso lui diviene leggenda. Suona T.D. Lemon, per i ricchi in prima classe così che per i poveri e la sua bravura suscita ammirazione e invidia, come quella di Jelly Roll, il presunto inventore del jazz pronto a sfidare il musicista dei mari. Ma questi non ama le sfide, pensa solo alla musica, a quell’unica, grande arte che non può essere ridotta a mero gioco d’esibizione. Novecento è un mito, una leggenda che tutti vorrebbero trasportare sulla terra. Eppure, lui tale coraggio non lo avrà mai. Si ferma, quattro, cinque passi sulla scaletta, ma no, il suo mondo è il Virginian, è la nave su cui è nato e su cui morirà. E in questo Novecento l’equivalente di tutti noi, perché ha paura dell’ignoto, è schiavo dell’abitudine e la sua nave, quella grande e maestosa casa sul mare, è la nostra storia d’amore, è il nostro lavoro deludente, è la vita che non sappiamo cambiare.
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