L’immagine dell’Egitto che al-Aswānī restituisce in “Palazzo Yacoubian” è di una società dominata dall’ipocrisia: un Paese intrappolato nella sua rassegnazione quiescente, con un sistema corrotto in maniera capillare sin dentro al midollo.
«Dieci piani costruiti nel più classico stile europeo, con i balconi riccamente decorati di statue con i volti ellenici scolpiti nella pietra; le colonne, le scale, i corridoi tutti di marmo naturale e l’ascensore, di marca Schindler, uno tra i più moderni». Palazzo Yacoubian è un sontuoso tempio della posterità. Il primo proprietario, Hagub Yacoubian, aveva smanie da protagonista e desideri faraonici; la sua personale piramide fu un edificio costruito nel centro del Cairo, nella centralissima via Suleyman pasha, frutto della bravura e dell’ingegno di un notissimo architetto italiano. Animato da furore e supremo egocentrismo, Hagub fece scolpire il proprio cognome nella parte interna del portone, in lettere capitali, illuminato da una lampada al neon. Da allora, Yacoubian divenne sinonimo di regalità e ricchezza, tempio ed alcova dell’Egitto più occidentale: ministri, latifondisti, industriali e milionari ebrei transitavano tra le mura sontuosamente affrescate, Rolls Royce, Buick e Chevrolet avevano un posto d’onore nei garage sotterranei.
La rivoluzione del 1952, poi, spazzò via tutto; un colpo di battipanni pronto a levare la polvere accumulata, una palla di vetro con la neve che, dopo esser stata rivoltata, riporta tutto a un triste e piatto tappeto bianco artificiale. Ai ministri subentrarono i generali e, con questi, un’inarrestabile caduta di rango. Negli anni Duemila Palazzo Yacoubian divenne un crocevia di umanità disastrate, un accumulo di tipi di dubbio gusto e moralità; dal sottoscala alle terrazze, lustrascarpe e portinai occupano i locali divisi a metà divenuti angusti e appesantiti dall’odore di cibo aleggiante per le scale, politici corrotti e vecchi donnaioli trascorrono le giornate tra donne da consumare e favori da elargire. Il tutto, impietosamente, sotto la lente del potere di Hosni Mubarak.
Non è difficile intuire come un microcosmo così ben delineato rappresenti perfettamente la storia e l’evoluzione di un paese senza riferimenti. Un palazzo del Cairo come metafora dell’Egitto, una piramide moderna pronta a sgretolarsi in sabbia sotto il peso dei regimi e del fondamentalismo. Palazzo Yacoubian di ʿAlāʾ al-Aswānī è una rappresentazione spietata della realtà che non abbiamo voluto vedere, è un ritratto a tinte fosche di un Paese oppresso e torturato, vittima dell’ingiustizia quotidiana che, non potendo essere combattuta, trascina al fondo. Come sia sfuggito alla censura resta ancor oggi, a tredici anni dalla sua uscita, un mistero. Al-Aswānī, dentista-scrittore con studio proprio in Palazzo Yacoubian, è da sempre conosciuto come severo critico del regime di Mubarak e militante del movimento d’opposizione laica Kifaya. Con penna sferzante e una gran dose di coraggio, ha dato vita a un quadro dai colori pesanti, a un torbido ritratto che non può più far chiudere gli occhi su un potere oppressivo e durissimo che, per mero opportunismo, era stato spacciato agli egiziani come moderato e pro-occidentale. È nelle stanze di questo Palazzo dei fasti che furono che l’autore tratteggia vizi privati e pubbliche virtù, piccole ruberie e soprusi di ogni genere, che dal piccolo camiciaio bramoso salgono fino al capo della polizia corrotto, per arrivare al Presidente ricattabile e cieco davanti alle evidenze più nette. Nei dieci piani di un edificio decorato da statue di volti ellenici si consuma una commedia umana tragica e reale, figlia di una perdita di punti di riferimento e valori in cui credere.
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