di Ilaria Moretti
Nel 1955 Françoise Truffaut si trovò a passeggiare per caso in Place du Palais Royal a Parigi. Con l’aria svagata che gli era propria entrò in libreria capitolando su un volumetto in vendita per pochi soldi. Si trattava di Jules et Jim, romanzo d’esordio del settantaseienne Herni-Pierre Roché, dandy e critico d’arte che si era cimentato, un paio d’anni prima, nella stesura di una vicenda ispirata alle sue personalissime avventure di gioventù. Il volume non aveva avuto il successo sperato e Truffaut (che al contrario ne fu entusiasta) propose a Roché di ricavarne un film.
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La difficoltà del regista consistette nello «strappare» – come suggerì Serge Toubiana – «il film dal libro», nel ritrovare la passione dei tre personaggi adattandola alla scrittura dei dialoghi cinematografici. Come gestire i problemi di ritmo? Come rendere la concisione delle scene? Come creare un «crescendo» senza scadere nel già visto? Ecco dunque le operazioni di taglio, le cancellature, la musica che s’adatta con una levità congeniale al girato, la rapidità impossibile della pellicola che «avanza, avanza, avanza» fino a toglierci il respiro, fino a portarci – à bout de souffle – sul limitare di un pontile in bilico tra la vita e la morte. (E Catherine – interpretata da Jeanne Moreau – a questi giochetti pareva davvero avvezza: «Guardaci bene, Jules!»). Il risultato è un film «leggero e aereo» che ancora oggi, a più di cinquant’anni di distanza, stupisce per la fretta, la bellezza al limite dello strazio.
Jules et Jim (1962) è dopotutto (e «nonostante» tutto) un film sulla passione. Un film unico nel suo genere grazie allo stile scanzonato e liberatorio – che in qualche modo ricalca l’acutezza, la musicalità del libro – unico per la progressione, il narrato che spodesta l’immagine per poi concedergli di nuovo spazio. Permane, al di là delle scopiazzature che gli faranno seguito (letterarie, musicali, cinematografiche) una pellicola che ha osato «dire», dunque «mostrare» (agli occhi e al cuore) ciò che la storia del cinema non aveva mai azzardato fino ad allora. Può una donna amare due uomini contemporaneamente? Possono i suddetti uomini dirsi amici e al contempo cedersi («con»-cedersi) la donna che amano – passionalmente, disperatamente, teneramente – senza per questo scalfire il loro legame?
La chiave di lettura è scandita a caratteri lapidari nella didascalia, il preambolo che anticipa i titoli d’inizio a schermo ancora nero: «Mi hai detto: ti amo. Ti dissi: aspetta. Stavo per dirti: eccomi. Tu mi hai detto: vattene». C’è Jeanne Moreau dall’altra parte del buio, la sua voce cupa, l’inafferrabile sorriso di Catherine che Jules (l’austriaco), interpretato da Oskar Werner, e Jim (il francese Herni Serre) avevano giurato di ricercare in una «lei» dopo esser stati folgorati dall’espressione di una statua antica.
Jules e Jim si conoscono a Parigi nei mesi che precedono la Prima Guerra Mondiale. Entrambi appassionati di letteratura e box francese, condividono lunghe passeggiate, pugni in faccia sul ring, discussioni consumate attorno a minuscoli tavolini da bistrot. Catherine entra in scena come un’apparizione: «tutto cominciò come un sogno».
Per qualcuno resta il ménage-à-trois più famoso della storia del cinema e insieme la vicenda di un amore impossibile (o amour fou – amore-follia, amore-pazzo – come amerebbero definirlo i francesi). Jules sposa Catherine che è una donna fuori dal comune, infelice eppure custode di una ribelle, incontenibile felicità. Jim accetta la relazione giurandosi di non venir meno al patto stretto in segreto con l’amico: «tutte tranne questa Jim, siamo d’accordo?». Così il pensiero di lei è cancellato, morto sul nascere, seppellito sotto una neutra amicizia: Jim e Catherine i compagni d’avventure, Jim e Catherine gli «amori» di Jules, Jim e Catherine il passo da non compiere. Jim l’aiuta a traslocare, le spegne un piccolo incendio dalla camicia da notte, si gira dall’altra parte quando si cambia d’abito, l’ammira quando si butta nella Senna per contrastare il maschilismo di Jules. Eppure si tiene à carreaux: è retto, inscalfibile, non vuole cedere. Ma Catherine è insidiosa, suggerisce, non molla la presa, si direbbe una rapace, una che non s’accontenta di nulla, che non accetta d’esser messa da parte, che deve stare al centro, costi quel che costi, soprattutto «piacere», ammaliare, sedurre per il gusto di farlo, per testare la resistenza dell’altro.
Sorride di quel sorriso da statua italiana, da sfinge. È enigmatica, sfuggente. In una parola: impossibile. Sottolinea tramite brevi espedienti, gesti più o meno marcati, l’insofferenza verso i modi affettati di Jules, le sue sviste innocue, l’amore sincero eppure prevedibile, le maniere da bravo austriaco conformista. Non c’è brivido tra i due ma vige la convinzione che, in qualche modo, la loro storia «debba» funzionare: non può essere altrimenti. Prima di sposarsi Catherine chiede appuntamento a Jim per parlargli di «una certa cosa». Lui l’aspetta per un’ora seduto al tavolo, riflette sul comportamento adottato da una «donna come lei». E qui inizia la crepa: per la prima volta si concede d’appoggiarsi all’idea di una Catherine femmina, donna e corpo insieme. La fantasia dura poco. Catherine non arriva, Jim se ne va: il tavolo rimane vuoto. Lei entra nel caffè un minuto dopo che lui l’ha lasciato.
Il matrimonio ci sarà, ma poi sopraggiunge la guerra e insieme la separazione: Jules e Jim combattono su due fronti opposti, Catherine è incinta. A conflitto terminato gli amici si incontrano nuovamente ma i rapporti sono cambiati. Catherine-«l’insoddisfatta» vive con Jules in una grande casa di legno non distante dalle sponde del Reno, hanno una bambina – Sabine (Sabine Haudepin) – ma la loro storia, seppure non scevra da tenerezze e complicità, è giunta al capolinea. L’incontro mancato con Jim prima del matrimonio avrebbe potuto cambiare le sorti dei tre amici? Non è dato saperlo. L’atmosfera all’interno dello chalet è strana, qualcosa non torna: Jim avverte il cambiamento ed è turbato dalla misteriosa figura di Albert (Boris Bassiak). Che sia uno degli amanti di Catherine? Certo è che hanno composto insieme una canzone. Lui suona la chitarra e lei canta guardando i tre uomini al fondo degli occhi. È Le tourbillon de la vie, Il vortice della vita:
Ci siamo conosciuti, ci siamo riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
ci siamo ritrovati e ci siamo riacciuffati
poi ci siamo separati.
Esiste un destino buono per Jim e Catherine? Un luogo dove amarsi, stare bene insieme? L’amore, sembra dirci Truffaut stando a braccetto con Roché, non sceglie mai i momenti giusti: scombina le carte, getta all’aria il mazzo, truffa la partita. Ci si può dir sereni solo mentendo a se stessi: accettando, covando in seno una serpe che prima o poi morderà. E se invece fosse giusto gettarsi, accantonare l’orgoglio, ingoiare i vecchi malintesi per soffrire prima ma per dirsi più sereni poi?
Quando ci siamo conosciuti
quando ci siamo riconosciuti
perché perdersi di vista,
riperdersi di vista?.
Jim e Catherine ci provano. Ma va male. È lui a capire quando è il momento di smettere. Quando la storia comincia a girare a vuoto, le lettere arrivano in ritardo portando assieme all’inchiostro tutte le vulnerabilità, le bassezze, i mutamenti d’umore. Ormai la comunicazione è divenuta «un linguaggio tra sordi». Ma Catherine non accetta il patto, non contempla la chiusura. Sembra serafica, eppure prepara il «colpo». Impacchetta un pigiama bianchissimo (presagio di un ennesimo tradimento con Albert? Metafora di un suicidio?), guida a velocità sconsiderata, fa lo slalom tra gli alberi sotto casa di Jim quasi ad anticipare (invocare?) la morte.
Quando ci siamo ritrovati
quando ci siamo riacciuffati
perché separarsi?.
La risposta è nell’ultima strofa della canzone:
Allora tutti e due siamo ripartiti
nel vortice della vita
E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme.
Forse è vero, come suggerisce Jules sul finale, che tutto si era giocato fra il «primo e il secondo tuffo nella Senna»: il primo per la seduzione, il secondo per la morte. Che cos’è, al fondo, che Jules aveva amato di loro, di Catherine e Jim messi insieme? Forse la capacità – la «sfrontatezza» – nel calpestare tutto: l’amicizia, l’amore e poi anche loro stessi. «Avevano amato la lotta per la lotta?» No: ma toccare l’apice significa anche considerare la possibilità – che qui diviene certezza – di ripiombare nell’abisso, abitarlo ed esserne inghiottiti. Non c’è legge che lo impedisca.
Soundtrack: Boris Bassiak, Le tourbillon de la vie (1957). Cantata da Jeanne Moureau.
Photos: Jules et Jim, François Truffaut, 1962.
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