All’indomani delle stragi parigine si è tornato a parlare di “scontro di civiltà” ed è partita la corsa alla difesa dell’identità. Di fronte al terrore non ci si può però rinchiudere nel proprio orto: questo è il motivo di un numero dedicato al Medioriente e alla sua bellezza.
Il 2015 probabilmente verrà ricordato dall’Europa come l’anno della paura, aperto dall’attentato a Charlie Hebdo e chiuso dalla strage parigina del 13 novembre. Lo spettro jihadista ha turbato i sonni europei. L’ondata emotiva che si è sollevata in entrambe le occasioni, prima con il “Je suis Charlie” e poi con “Pray for Paris” è comprensibile; la mobilitazione, virtuale ma non solo, ha dimostrato come, al di là di tutto, un sentimento di fratellanza all’interno del mondo europeo esista. D’altro canto, in quei drammatici giorni di novembre, mentre tantissime persone cambiavano la propria immagine profilo di Facebook con il tricolore francese, altrettante facevano notare l’ipocrisia del gesto che attribuiva pesi diversi ai morti: si esprime solidarietà verso il popolo francese, ma non verso tutte le altre vittime della furia dell’ISIS. In realtà, tutte e due le parti in causa, in qualche modo, avevano ragione. Da un lato è vero: con quel semplice, quasi banale, gesto si attribuiva un peso diverso alla morte; ma d’altro canto è altrettanto vero che più un fatto è prossimo e più si è portati a una reazione emotiva. Giusto o sbagliato che sia, così è.
D’altro canto in seguito ai due attentati che hanno colpito l’Europa nel suo cuore pulsante sono state rispolverate teorie che si credevano superate ormai da anni. Si è tornato a parlare di “scontro di civiltà”, di un “mondo islamico” che, per sua intrinseca natura, vorrebbe assoggettare ai propri dogmi il “mondo occidentale”, come se tutte le persone di fede islamica fossero complici dello jihadismo dello Stato Islamico, dimenticando che quest’ultimo non è che una sparuta, seppur terribilmente agguerrita, minoranza di fanatici. Eppure il fanatismo non è connaturato all’Islam. Sostenere questa posizione, equivarrebbe ad affermare che tutte le persone battezzate siano state complici del famigerato Anders Breivik che, per i più smemorati, fu il cattolico integralista – di estrema destra – che il 22 luglio 2011 a Utøya, in Norvegia, uccise 77 persone e ne ferì 319, dichiarando di averlo fatto per mandare un «messaggio forte al popolo, per fermare i danni del partito laburista» e per fermare «una decostruzione della cultura norvegese per via dell’immigrazione in massa dei musulmani». Insomma, nella sostanza niente di diverso dalle posizioni del fanatismo islamico, forse proprio perché è pur sempre di fanatismo che si parla.
Come risulta evidente, il nocciolo della questione è uno: l’identità. Essa può essere personale o collettiva. Nel primo caso ci si riferisce al Sé ed è la psicologia a occuparsene, nel secondo caso invece si riferisce al “Noi”, a come una comunità umana rappresenta se stessa, e tutto un filone di studi dell’antropologia sociale si occupa del suo studio, dello studio cioè dell’identità etnica. Nello specifico il sostantivo “etnia”, da cui deriva l’aggettivo “etnica”, discende dal greco èthnos, che significa popolo o, più in generale, gruppo sociale con caratteristiche comuni. Il concetto di identità etnica è stato esaminato attentamente, in tutte le varie accezioni, dall’antropologo Ugo Fabietti, autore de L’identità etnica – Storia e critica di un concetto equivoco [Carocci, Roma 2013].
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Immagine in copertina: Olivier Ortelpa
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