La riforma dell’istruzione #labuonascuola, presentata dal Governo Renzi nel settembre 2014 e approvata definitivamente dalla Camera dei Deputati il 9 Luglio 2015, introduce importanti cambiamenti nel sistema scolastico italiano. Il principio fondamentale della riforma è il potenziamento dell’autonomia scolastica, ovvero una maggiore libertà nella gestione della didattica, dei progetti formativi, degli edifici e dei fondi a disposizione di ogni singola scuola: a partire dal 2016 ogni istituto scolastico avrà l’onere di pianificare triennalmente la propria offerta formativa e a questa triennalità saranno legati i vari adempimenti amministrativi, dall’organico alla mobilità del personale.
Completando l’opera della riforma Berlinguer (L. 30/2000), che aveva introdotto l’autonomia scolastica e creato il sistema degli istituti paritari, la Buona Scuola si iscrive pienamente nella tradizione del riformismo neoliberista e ne contiene gli indirizzi politici fondamentali: dall’attacco ai diritti degli insegnanti, trasformati in impiegati esecutori di ordini imposti dall’alto, all’aziendalizzazione della scuola, orientata alla concorrenza sul mercato, al punto che si può affermare di trovarci di fronte a un nuovo sistema scolastico formalmente pubblico, ma di fatto “privato” nei meccanismi di gestione e funzionamento.
Nelle righe che seguono si proverà a dare una valutazione complessiva della riforma, a partire dalla storia della politica della seconda metà del Novecento e dai problemi principali della realtà italiana, per poi valutarla sulla base della «promessa meritocratica» del renzismo.
1) Il contesto italiano: il problema del mismatch tra domanda ed offerta di lavoro
Nell’approcciarsi alla questione dell’istruzione in Italia non si può tacere un desolante dato di fatto: il sistema scolastico attuale, per quanto in grado di generare un risultato formativo tra i più elevati del mondo in termini di cultura generale (umanistica e scientifica), negli ultimi decenni non è apparso in grado di garantire agli studenti una efficiente ed efficace transizione nel mondo del lavoro.
L’istruzione e la formazione, in teoria, costituiscono fattori di vantaggio lungo tutto l’arco della vita, assicurando migliori opportunità occupazionali e proteggendo, in parte, dal rischio di disoccupazione. Uno dei problemi cruciali del sistema economico italiano, comune a molti Paesi europei ma che in Italia assume dimensioni patologiche, è tuttavia il mismatch (disallineamento) che esiste tra l’offerta che emerge dal sistema dell’istruzione (le competenze e le skills dei diplomati e laureati) e la domanda proveniente dal mondo produttivo (le competenze e le skills richieste sul posto di lavoro). Si parla, al riguardo, di due tipi di mismatch: uno “verticale”, dovuto al fatto che molti neo-assunti sono in possesso di un titolo di studio (e un bagaglio di competenze) non necessario o insufficiente per la mansione che svolgono (overeducation ed undereducation), ed uno “orizzontale”, relativo alla scelta personale dei percorsi di studio (sbilanciata, guardando le statistiche nazionali, verso gli indirizzi generalisti, classico e scientifico) spesso lontana dalla domanda di competenze che emerge dal sistema produttivo. Il fenomeno della disoccupazione giovanile, che ha raggiunto nel 2015 il 44,2%, è in gran parte attribuibile a questo “disallineamento” tra istruzione e mondo del lavoro, che causa una perdita di capitale umano nei giovani che, non lavorando negli anni immediatamente successivi la fine degli studi, rischiano un arrugginimento delle competenze acquisite, un mancato turn-over nel mercato del lavoro e il conseguente spreco di potenziale innovativo, dunque una perdita di competitività per il sistema economico italiano nel suo complesso.
Non è facile attribuire le responsabilità di questo fenomeno: le cause sono molteplici e complesse, in una parola sistemiche. Viene spontaneo puntare il dito contro il sistema scolastico, spesso percepito tanto dagli studenti quanto dalle imprese come molto distante dalle esigenze del mondo del lavoro, e tuttavia non si può trascurare l’altra faccia della medaglia, cioè una struttura per professioni della domanda di lavoro decisamente poco qualificata e sostenuta da un tessuto produttivo in cui imprese di piccole dimensioni, collocate perlopiù in settori tradizionali, hanno scarso interesse ad un investimento strategico nelle risorse umane. Non si dimentichi, infine, che in Italia manca un mercato, formale e regolato, che permetta l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tra il sistema di istruzione e il mondo del lavoro regna un vuoto quasi assoluto, che viene spesso riempito da forme personali di intermediazione (la famiglia, le conoscenze) che tendono a riprodurre quelle stesse iniquità (a livello di individui) e inefficienze (a livello delle imprese) che proprio l’istruzione dovrebbe permettere di correggere.
Il problema della disoccupazione giovanile non ha la sua causa interamente nel sistema scolastico, ma riguarda più nel complesso il rapporto che intercorre tra istruzione, tessuto produttivo e reti pubbliche di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro: una politica seria di contrasto al fenomeno del mismatch e della disoccupazione giovanile non può dunque limitarsi ad una riforma del sistema scolastico, ma deve essere integrata con interventi di politica industriale e di costruzione di un efficiente sistema nazionale di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro.
La Buona Scuola manifesta questa consapevolezza, ma contiene misure adatte allo scopo? Prima di rispondere a questa domanda è utile inquadrare l’impostazione ideologica di fondo della riforma.
2) L’impostazione ideologica: il neoliberismo
La Buona Scuola, come accennato nell’introduzione, s’iscrive nella tradizione del riformismo neoliberista inaugurato dalle politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher nei primi anni Ottanta, che hanno operato una rivoluzione copernicana nella concezione dello Stato, della società e del sistema dei servizi. Negli anni ’60 e ’70 i governi consideravano il sistema dell’istruzione come una delle leve fondamentali del welfare state: la scuola statale standardizzata, rivolta principalmente alla produzione di competenze generali per un mercato ricco di opportunità di lavoro impiegatizie ed “intermedie” (mansioni amministrative, contabili, lavori manuali a carattere routinario), era concepita come il miglior strumento di uniformità di spesa pro capite e, dunque, di redistribuzione di redditi ed opportunità all’interno della società. A partire dagli anni ’80 la visione muta radicalmente, virando verso un’impostazione aziendalistica e privatistica finalizzata alla produzione di eccellenze e alla concorrenza sul mercato. Il documento che fa da spartiacque tra i due periodi è il rapporto A Nation at Risk, presentato nel 1983 da Terrell Bell, segretario all’istruzione del Governo Reagan.
In tale rapporto veniva denunciata l’eccessiva frammentazione dei curricoli delle High Schools statunitensi, veri e propri supermarket educativi in cui si poteva studiare tutto e il contrario di tutto, ed emergeva un’impostazione conservatrice della pedagogia (si invocava maggiore disciplina nelle aule e più tempo dedicato allo studio). Il rapporto dette vita a un ampio dibattito internazionale e spinse la politica a interrogarsi sul funzionamento e l’eventuale riforma del sistema scolastico. Paradossalmente, se negli Stati Uniti è considerato un punto di riferimento positivo da parte dei movimenti intellettuali contro il «teaching to the test», che spingono per la centralità del “pubblico” nell’istruzione (maggiore unitarietà dei saperi, rafforzamento delle basi culturali del curricolo); in Europa il rapporto di Bell ha dato il via a un’epoca di riforme in senso opposto, inaugurata dall’Education Act del Governo Thatcher (1988), tese a diversificare l’offerta formativa dei singoli istituti, a disancorare la scuola dal ruolo di strumento di welfare e a rilanciare la produzione di “capitale umano” in vista della crescita di competitività dei sistemi economici nazionali all’interno del libero mercato globale.
Come ha messo efficacemente in luce Marco Magni in un articolo pubblicato su MicroMega, due sono gli assi portanti del “nuovo discorso” sulla scuola inaugurato da A Nation at Risk che, attraverso le riforme di Reagan, Thatcher e Tony Blair, arriva fino alla Buona Scuola del Governo Renzi: la retorica del «capitale umano» e la costruzione, su questa retorica, di un «appello morale» all’investimento, familiare e nazionale, sull’educazione e l’istruzione dei giovani.
Innanzitutto, la retorica del «capitale umano». L’istruzione, in quest’impostazione, costituisce la variabile indipendente della crescita economica: tanto migliore è il livello di istruzione di una popolazione, tanto maggiore è il «capitale umano» che essa esprime e dunque il livello di competitività del sistema economico nazionale. Alla base del concetto di «capitale umano» vi è una premessa profondamente individualista: il livello di competitività complessivo di un sistema si forma a partire dall’elemento fondamentale, l’individuo, che deve essere educato alla gestione strategica del proprio «capitale personale», costituito dalla propria cultura, dalle proprie competenze e dai propri talenti – in altri termini, deve essere educato all’auto-imprenditorialità, la cui importanza all’interno della Buona Scuola è non a caso sottolineata dal comma 2 dell’articolo 3, che parla esplicitamente di «promozione dell’educazione all’auto-imprenditorialità».
Giusta o sbagliata che sia – ci si può interrogare intorno alla questione se l’individualismo, con la sua impostazione anti-corporativista, abbia migliorato o peggiorato la salute della nostra società, aumentato o diminuito la mobilità sociale e le possibilità di riequilibrio dei rapporti di forza tra i vari ceti – non c’è alcun dubbio che questa logica abbia permesso ai governi di depennare dalla lista delle politiche tutte le riforme (di sapore keynesiano) finalizzate all’espansione del “pubblico” e alla creazione di posti di lavoro, compito delegato al sistema privato secondo la visione neoclassica riassumibile nella massima «l’offerta crea sempre la propria domanda». La stessa Commissione Europea ha fatto propria questa impostazione politico-ideologica, mettendola nero su bianco nel documento strategico Europa 2020 nel quale i temi della competitività, del capitale umano, della diversificazione educativo-formativa e della crescita delle competenze dell’individuo sono concepiti come gli strumenti fondamentali del rilancio economico dell’Unione Europea. La convinzione di fondo – tutta da dimostrare – è che l’abbondanza di capitale umano attiri investimenti privati, gli investimenti privati generino occupazione, l’occupazione crei crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle società europee.
Sulla retorica del «capitale umano» si è poi costruito l’appello morale all’investimento sull’istruzione. E qui meglio lasciare la parola direttamente a Magni, che ha espresso il concetto con grande chiarezza:
Altri hanno già compreso politicamente il valore simbolico della scuola, e lo hanno sfruttato politicamente. Il precedente, rispetto alla retorica renziana, è il Tony Blair dello slogan: “Education, education, education”. L’impegno per la scuola diviene fattore di costruzione del consenso e della “visione” dei governanti poiché chiama idealmente tutti a stringersi nello sforzo di investimento sul futuro. L’appello si rinforza grazie all’identificazione emotiva tra l’investimento della famiglia sul futuro dei propri componenti e l’investimento politico e sociale su scala sistemica. Riagganciandosi ad una tradizione di lunga durata, che riguarda la storia della scuola statale ma risale probabilmente ai suoi precedenti ecclesiastici, a S. Filippo Neri o alle “piccole scuole” primo-settecentesche di Giovanni Battista La Salle, la retorica governativa, nel mentre ribadisce la connotazione morale dell’educazione come “missione”, la utilizza anche per donare una qualificazione morale a se stessa ed al proprio indirizzo politico generale.
L’obiettivo? Infondere un’anima all’economia sociale di mercato, una cultura e una visione di fondo per tentare di tenere insieme una società individualistica e competitiva fondata sull’autoimprenditorialità e sulla concorrenza di mercato.
3) La Buona Scuola: l’autonomia scolastica
Il potenziamento dell’autonomia scolastica, come si diceva nell’introduzione, è il principio fondamentale de La Buona Scuola, e da esso si può partire per rispondere alla domanda iniziale: dalla riforma emerge la consapevolezza della necessità di ampliare lo sguardo al di fuori del sistema scolastico e di realizzare politiche integrate dell’istruzione, della formazione e del lavoro? In altri termini: l’autonomia scolastica è in grado di avvicinare il mondo dell’istruzione a quello del lavoro, garantendo al contempo quell’eguaglianza di opportunità che della meritocrazia è la condizione necessaria?
La risposta, a parere di chi scrive, è tendenzialmente negativa. Di fronte al fallimento della transizione tra scuola e lavoro, la via scelta dal Governo Renzi (in continuità con le riforme dei Governi precedenti) è stata quella di staccarsi dal «principio di unitarietà del sistema scolastico», sancito dalla Costituzione, al fine di legare maggiormente gli istituti scolastici ai contesti produttivi locali.
A questa finalità sono diretti tutti gli elementi principali della riforma: l’aumento della quota di ore di lezione lasciata alla libera rimodulazione del singolo istituto, insieme alla possibilità di aprire gli spazi della scuola negli orari pomeridiani; l’istituzione delle «reti di scuole», finalizzate alla nascita di vere e proprie «filiere formative» (in cui legare l’offerta di Istruzione e Formazione Professionale a quella dell’Istruzione Tecnica Superiore); creazione, a partire dal 2016, degli Albi Provinciali, da cui i Presidi assumono per «chiamata diretta»; il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro, allargata ai licei (almeno 400 ore negli istituti tecnici e professionali e almeno 200 ore nei licei); la possibilità di stabilire convenzioni con aziende e fondazioni, per la gestione degli edifici scolastici e la programmazione dell’offerta formativa e dell’alternanza scuola-lavoro.
Se apre – almeno in teoria – alla possibilità di un miglioramento del rapporto tra istruzione e mondo del lavoro, l’autonomia scolastica della Buona Scuola contiene degli elementi che rischiano di danneggiare il sistema dell’istruzione italiano e, soprattutto, le pari opportunità di partenza. Argomentiamo per punti.
Un primo, fondamentale rischio – anzi, quasi una certezza – è la frammentazione dell’Italia in una miriade di contesti socio-culturali differenti. Si dirà: l’Italia è già divisa a livello socio-culturale, è già «tanti Stati in un solo Stato». Verissimo: infatti è proprio questo il motivo che spinse i nostri padri costituenti ad inserire il «principio dell’unitarietà del sistema scolastico» nel testo della Costituzione, consapevoli che un secolo dopo la creazione dello Stato italiano «gli italiani non erano ancora stati fatti» (parafrasando D’Azeglio) e che dalla realizzazione della «cultura italiana» sarebbe passata la fortuna o la rovina dell’intera Nazione. Con l’autonomia scolastica spinta all’estremo, la Buona Scuola sancisce definitivamente la rinuncia dello Stato italiano a costruire dall’alto una “cultura italiana”.
Un secondo rischio, forse il pericolo più grande della riforma, è la fossilizzazione delle differenze tra Centro-Nord e Sud Italia. Legando gli istituti scolastici – a livello di finanziamenti, di convenzioni con il mondo delle imprese, dunque di programmazione e di qualità dell’offerta formativa – ai contesti socio-economici locali, la Buona Scuola rischia di generare “circoli virtuosi” per le scuole situate in territori ricchi e ad alta densità di imprese e, per contrasto, “circoli viziosi” per quegli istituti che invece hanno la sede in territori più poveri e meno sviluppati dal punto di vista economico e produttivo. Si badi bene: è un rischio che esiste anche all’interno di una stessa Regione, laddove vi siano diseguaglianze marcate tra differenti territori, ma sicuramente il pericolo aumenta a livello nazionale, divisa come è l’Italia in maniera orizzontale tra un Centro-Nord più sviluppato e un Sud che arranca.
È qui una parte fondamentale della risposta alla domanda che ci siamo posti, la questione cioè se La Buona Scuola contenga o meno la consapevolezza di politiche integrate: se non accompagnata da una seria politica industriale, tesa a indirizzare finanziamenti ed investimenti (soprattutto infrastrutturali) nelle zone più arretrate, La Buona Scuola rischia di non dare effetti e, anzi, di peggiorare la situazione in tanti contesti italiani. Dal testo della riforma questa consapevolezza non emerge, e ad oggi non traspare neppure dall’attività governativa nel suo complesso.
Un terzo rischio risiede nella laicità della scuola. Dagli elementi centrali della riforma emerge con grande evidenza il fatto che la scuola rimane formalmente “pubblica” ma de facto funziona come una scuola “privata”, dal meccanismo di assunzione per chiamata diretta alle modalità di finanziamento. Alla luce della conformazione socio-economica del panorama italiano, costituito da una miriade di fondazioni religiose legate al mondo imprenditoriale così in profondità al punto che spesso risulta difficile scinderle nel concreto, la domanda sorge spontanea: dal momento che i singoli istituti e le reti di scuole potranno stipulare convenzioni con imprese, associazioni e fondazioni, quanto è grande il pericolo che i Piani dell’Offerta Formativa e le attività educative accessorie (pomeridiane ed estive) siano orientate ideologicamente e confessionalmente? Il tutto, a prescindere dalla confessione o dall’ideologia di riferimento, che può essere quella cattolica o quella pro diritti gay. È il principio che la scuola (in quanto pubblica) sia laica e non debba avere orientamenti di parte a essere colpito al cuore. Nelle 140 pagine del documento esplicativo presentato dal Governo lo scorso settembre la parola “laicità” non compariva neppure una volta; nel testo del Disegno di legge la questione non è mai sollevata e non vi sono strumenti utili di difesa dall’ingerenza ecclesiastica, e la provenienza politica del Ministro Stefania Giannini certo non aiuta a diradare i sospetti – anzi, la Buona Scuola recepisce gran parte delle richiesta che da anni l’Associazione dei Genitori e delle Scuole Cattoliche rivolge al Ministero dell’Università e dell’Istruzione, a dimostrazione di quali “mondi” sono dietro l’elaborazione e la scrittura della riforma.
Last, but not least, il quarto pericolo della riforma: la fine della libertà di insegnamento, anch’essa sancita dalla Carta Costituzionale. Anche qui, più che un rischio ci troviamo di fronte a una ragionevole certezza: il passaggio dall’assunzione dalle graduatorie, pubbliche ed impersonali, alla chiamata diretta dagli albi provinciali pone grande discrezionalità e potere decisionale nelle mani del Dirigente Scolastico, e le decisioni sulle assunzioni rischiano di essere viziate da logiche clientelari e da meccanismi “personali” che riducono la libertà del docente. Due esempi banali: è verosimile pensare che un professore non sindacalizzato sia preferito rispetto a uno che partecipa a molti scioperi e manifestazioni; il Preside di una scuola che ha ricevuto finanziamenti da parte di una fondazione religiosa sarà inevitabilmente portato ad operare un vaglio ideologico sui docenti da assumere, in modo che le opinioni personali dei docenti non siano in contraddizione con il piano educativo dell’istituto. L’attacco all’autonomia dei docenti rientra nel più generale, internazionale ed ormai pluri-decennale, attacco nei confronti dello statuto e dei diritti del lavoro: da anni, anche in Italia e soprattutto nel periodo concomitante all’iter parlamentare de La Buona Scuola, i professori sono vittime di un messaggio derisorio teso a far collassare su di loro tutte le responsabilità del fallimento educativo, quasi gli esempi pubblici della politica e il lassismo della famiglie non siano elementi decisivi del problema. Si tratta di un tema ampiamente affrontato dalla sociologia contemporanea, che ha messo in luce come la tendenza generale delle riforme neoliberiste degli ultimi decenni (in tutto l’Occidente) sia non solo di far arretrare i docenti nella scala dei redditi, ma anche di ridimensionare il loro status, declassandoli da professionisti, dotati di una relativa autonomia di scelta e di giudizio, in impiegati, dediti al lavoro esecutivo di somministrazione di programmi e moduli didattici preparati fin nel dettaglio da altri. Gill Helsby, ad esempio, afferma che gli insegnanti, nel modello della managerial school che va profilandosi in tutta Europa, «da professionisti in grado di operare scelte curricolari» vengono trasformati «in tecnici bisognosi di direttive precise ed esecutori di ordini stabiliti altrove».
4) Meritocrazia: una promessa mancata?
Cavallo di battaglia del renzismo, la “meritocrazia” latita proprio laddove le parità di opportunità di partenza si sostanziano: nel sistema dell’istruzione così come viene rimodellato da La Buona Scuola. Come si è visto, la direzione della riforma non è quella di riequilibrare le differenze attraverso la pianificazione ministeriale centrale, ma di cementificare il legame delle scuole con i territori: e questo legame riproduce e fossilizza nel tempo le differenze di opportunità che esistono tra i vari contesti socio-economici, ad esempio tra gli studenti della Milano bene e quelli dei quartieri periferici di Palermo. In attesa di conoscere il piano del Governo per il rilancio del Mezzogiorno, manca una politica industriale in grado di generare dinamiche virtuose nei contesti più arretrati, così come manca un solido sistema nazionale di diritto allo studio per incentivare la mobilità nazionale degli studenti ed equilibrare così le opportunità di accesso alle migliori scuole ed università, che aprono a loro volta un canale privilegiato verso le migliori posizioni lavorative.
D’altra parte, il neoliberismo è esattamente questo: la posizione ideologica secondo cui «il potere non crea la società, ma la trova», ed i rapporti sociali (differenze tra gli individui e i ceti sociali, a livello di reddito ma anche di opportunità) devono essere il risultato della libera interazione e competizione di attori privati e non il frutto di una decisione e di una spinta degli apparati politico-amministrativi. In un’impostazione di questo tipo, non c’è neppure spazio per un “giudizio di giustizia” sull’assetto sociale: se il giovane di Milano ha più opportunità dello studente di Palermo, è così che deve essere, perché molto semplicemente si tratta di un fatto “naturale” come il fatto che la Terra gira intorno al Sole.
In conclusione, la gerarchia sociale e non la meritocrazia sostanziale sembra essere il risultato de La Buona Scuola del Governo Renzi. Ci racconteranno che non poteva essere altrimenti; a noi, intanto, il dovere di raccontare come la promessa meritocratica della svolta renziana sia naufragata in un desolante classismo neoliberista.
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