Il film della regista saudita Haifaa al-Mansour racconta la storia di una ragazzina che sogna di possedere una bicicletta verde, intraprendendo un percorso di formazione che attraverso l’ingegno e la determinazione si insinua vittorioso tra le pieghe del potere.
In un Paese come l’Arabia Saudita, in cui non esistono sale cinematografiche e dove la rigida interpretazione wahabita della shariʿa vieta severamente qualsiasi tipo di proiezione pubblica in quanto «lesiva della morale e della religione», l’uscita nel 2012 del film La bicicletta verde ha il sapore di un piccolo miracolo. Innanzitutto perché si trattava del primo lungometraggio girato interamente nel Regno, in secondo luogo perché dietro la macchina da presa c’era l’occhio femminile di Haifaa Al-Mansour, unica regista saudita che con una buona dose di caparbietà è riuscita a portare a termine il suo progetto vincendo le tante resistenze di un ambiente a dir poco ostile.
Haifaa al-Mansour, vissuta in una famiglia aperta e liberale, laureata in Lettere all’Università Americana del Cairo e specializzata con un Master in Regia presso l’Università di Sidney, dopo aver prodotto numerosi cortometraggi e documentari sulla difficile condizione femminile nella cultura araba come Who? o Women without shadows, ha acceso i riflettori sul difficile e ambiguo rapporto tra emancipazione femminile e tradizione, andando a toccare uno dei tasti dolenti della società saudita. Il suo è un cinema che, mostrando la quotidianità senza ipocrisie e mistificazioni, vuole stimolare una visione critica della realtà, e in questo potremmo avvicinarlo al neorealismo italiano del quale la regista è una profonda estimatrice.
Per realizzare il film Haifaa al-Mansour ha impiegato cinque anni: tanti ne sono occorsi per scrivere la sceneggiatura, trovare una casa di produzione e distribuzione – la berlinese Roman Paul Gerhard Meixner – e infine girare a dispetto di tutto e di tutti: della diffidenza della sua gente, delle pastoie di una burocrazia estenuante, delle ricorrenti tempeste di sabbia sul set che hanno imposto frequenti pause nelle riprese. Ma alla fine ce l’ha fatta, e i suoi sforzi sono stati ampiamente ricompensati dalla risonanza internazionale di un film che, con leggerezza e ironia, è riuscito ad accendere i riflettori sulla drammatica condizione di subordinazione nella quale è relegato l’universo femminile all’interno della società araba.
Presentato nel 2012 al Festival del Cinema di Venezia, dove si è aggiudicato il Premio Cinema d’Arte e d’Essai nella sezione Nuovi Orizzonti, ha ottenuto il riconoscimento di miglior film arabo al Film Festival di Dubai (2012), la nomination ai BAFTA (British Academy of Film and Television Arts) come miglior film non in lingua inglese e ai Satellite Awards come miglior film straniero (2014), il Primo Premio al British Independent Film Award (2013), il patrocinio della Sezione Italiana di Amnesty International e ha rappresentato in assoluto la prima candidatura dell’Arabia Saudita al premio Oscar dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences.
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