L’Orso d’oro a Berlino 2015 è stato alzato al cielo da una bambina vestita di rosa. È Hana Saedi, giovane interprete di Taxi e nipote del regista dissidente Jafar Panahi che, secondo il governo iraniano, non può lasciare il Paese né girare film per 20 anni.
Fortuna che ha disobbedito, verrebbe da dire. Sì, perché quello che Panahi ci ha regalato è un documentario ricco e variopinto su Teheran, vista interamente attraverso i vetri di un taxi guidato da lui stesso che, con sguardo lucido e attento, ha saputo mettere in luce le tante contraddizioni di un Paese difficile.
Il direttore Dieter Kosslick aveva tenuto a dire, ad inizio cerimonia, che «la Berlinale è un festival politico nel senso che siamo consapevoli di quel che succede nel mondo», e difatti così è stato: oltre a Panahi, sono stati premiati (Gran Premio della Giuria e Alfred Bauer-nuove prospettive) il cileno Pablo Larrain con El Club, amara denuncia sui crimini della chiesa cilena e Jayro Bustamante con Ixcanul, film sulle catene culturali e materiali dei contadini maya.
Si sono registrati poi due ex aequo: il romeno Radu Jude per Aferim! e la polacca Malgorzata Szumowska per Body alla regia, il tedesco Victoria ed il russo Sotto nubi elettriche per la fotografia.
L’Orso alla sceneggiatura è andato al cileno Patricio Guzmàn, documentarista di razza che con El botón de nácar ha tracciato un parallelo tra il genocidio degli indios in Patagonia e le esecuzioni di massa sotto Pinochet.
Atteso e condivisibile il trionfo come miglior attori di Charlotte Rampling e Tom Courtney, coppia in crisi matrimoniale in 45 years, film denso e magistralmente interpretato.
Chi è rimasto a digiuno è invece il nostro Paese che, con Vergine giurata, sperava di veder sorridere almeno la brava Alba Rohrwacher.
G.A.
[…] di rara bellezza che riassume il senso della Settima Arte quale forma di libera espressione. Mai Orso d’oro fu più […]