Una lirica dal carattere epigrammatico ed essenziale, uno stile ironico, che rivela un atteggiamento di disincanto verso la realtà, forse legato all’esperienza biografica del poeta, greco d’Alessandria costretto ad una vita semi-raminga che lo vedrà tornare nella “sua” Grecia solo nel 1901. Una poesia che è nobilitazione e riscatto della miseria umana, memoria e rielaborazione di un passato che è da un lato biografico e dall’altro storia e tradizione di tutta una civiltà. Questo, e molto altro, è Kostantinos Kavafis (1863-1919), il poeta della “grande Grecia”. È una Grecia eterna, metastorica, radicata nel mito ma comunque legata alla contemporaneità, quella che emerge dalle centocinquantaquattro poesie del corpus di Kavafis, originariamente scritte su fogli svolazzanti e di rado sistemate in fascicoli, nelle quali prendono corpo i fatti dell’ellenismo greco romano e del periodo bizantino, tutte rigorosamente in greco, la lingua della madre.
Kostantinos Kavafis, pur avendo visitato la Grecia solo due volte in tutta la sua vita, ha costituito da subito un punto di riferimento per i poeti greci di “Nuova vita”, soprattutto da anziano, quando si ritrova circondato da un’aura di mistero, sapienza e di segreto, soprattutto riguardo la sua presunta omosessualità, vissuta dal poeta in modo molto tormentato. Elevato a poeta di fama internazionale tramite un saggio di Forster, ricevette gli omaggi di molti artisti nella sua casa di via Lepsius 10, ad Istanbul, anche se la sua produzione, come si è già detto, era sparsa su fogli volanti, giornali e riviste, al punto che la sua prima raccolta di poesie uscì solo nel 1935. La raccolta, pubblicata postuma, custodisce gran parte dell’esperienza umana ed artistica di questo eccentrico, geniale maestro della poesia del Novecento.
Kavafis si adoperò lungo tutta la sua produzione poetica per ridare vita alla letteratura greca, sia in patria che all’estero, tramite poesie che sono spaccati della realtà: sono componimenti pieni di sentimento, di incertezza, di indagine psicologica e di nostalgia. Oltre ai soggetti, poco convenzionali per la sua epoca, le sue poesie danno anche prova di un’arte versatile, che purtroppo viene meno con la traduzione nella altre lingue.
È una poesia di solitudine, di atmosfere ovattate e di chiusura, scritte nella penombra della sua casa alessandrina dalle finestre sempre serrate nelle quali Kostantinos Kavafis riporta alla luce i fantasmi della sua giovinezza, i ricordi e gli incontri fissandoli talvolta in una rarefatta malinconia, talaltra rievocando con passione le situazioni passate, vincendo l’oblio e il tempo che fugge. È una poesia di matrice pagana, svincolata dai dogmi della cristianità, e legata invece all’atavico ellinikì idonì, il “piacere greco”, basata su una concezione estremamente tragica e classica del destino umano, che tuttavia si concretizza a livello poetico secondo modalità tutte moderne: è infatti l’uomo con la sua inquietudine a guastare l’opera sublime degli dei ed è sempre l’uomo che si sforza di schivare una sorte che si pensa ineluttabile, quando il vero ineluttabile, invece, lo coglie di sorpresa.
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La gnome kavafiana (traducendo liberamente: la “poetica di Kavafis”) recupera movenze antiche, modulandole però con amarezza e disincanto contemporanei; il poeta sente tutta la grandezza e la potenza della Storia e della classicità in modo pesante e tragico, di fronte alle quali l’unico atto di eroismo possibile è quello di salutare stoicamente il meraviglioso tempo passato, cui si ha avuto il privilegio di partecipare, vivere e godere. È in definitiva una poesia titanica ed eroica in cui risplende l’eroismo di un poeta “esule” dalla sua Grecia, quella patria verso la cui storia Kavafis guarda con ammirazione e timore, che riesce a trarre fuori dalla fanghiglia della sua burrascosa vita la perla rara della bellezza poetica.
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