Dal 18 al 21 novembre finalmente -in seguito all’inevitabile e dolorosa posticipazione dal febbraio 2020- Teatro i ha accolto Kiva, dall’ideazione, luci e regia di Lorenzo Bazzocchi con Eleonora Sedioli della compagnia Masque Teatro. La potenza ctonia della performance e la convinzione strettamente personale di un confronto rispetto alla presa di consapevolezza della medesima energia vitale portata in scena dall’abilità performativa della stessa Sedioli ha trovato luogo fertile in un illuminante scambio con Lorenzo, portavoce intervistato all’occasione del portentoso lavoro di Masque Teatro.
Da dove vi arriva lo spunto per «Kiva»? Quale può essere l’origine?
«Kiva ha debuttato nel 2019 al teatro Rasi di Ravenna, ha una sua vita poi interrotta per la pandemia, era stato programmato al Teatro i il 28 febbraio 2020, giorno stesso lockdown. Kiva trae la sua vita da studi condotti sulla figura di Aby Warburg, nello specifico dalla conferenza Il rituale del serpente a cui si è sovrapposta la vicenda della malattia mentale e dunque il percorso di riabilitazione con Ludwig Binswanger sul lago di Costanza alla clinica Bellevue: dal loro scambio si deducono vicende che hanno dato vita alla direzione che il lavoro avrebbe dovuto prendere dal punto di vista della struttura coreografica.»
«Lavoriamo ai confini tra danza e teatro, con qualcosa che ha a che fare con la vita di una figura alla ricerca di una sua nuova forma di esistenza. Warburg è stato tramite grazie alla forza che trasmette nell’analisi dell’immagine, ricercandone gli aspetti orrorifici oltre l’idea rinascimentale di bellezza, in una sorta di congiunzione con il richiamo a Freud e il concetto di rimosso e ritorno del rimosso -rimbalzo imprescindibile divenuto nostra chiave di lettura. Con l’analisi di Georgers Didi-Huberman ci siamo allontanati dal target di Warburg, per cogliere in certe parole chiave la possibilità di dare alla figura, con Eleonora, una modalità che possa superare un punto cruciale della creazione. Quando si parte dal vuoto il focus non è tanto cosa fare, -c’è alla base progetto di azione- quanto il tentativo disperato di capire di come ci si possa trovare di fronte a una nuova forma di vita.»
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In questo senso vi rifate all’accezione di warburghiana di sopravvivenza? Superare il vuoto senza riempirlo affinché possa riproporsi in un nuovo modo?
«Il concetto di Nachleben è centrale: la sopravvivenza in sé, questa memoria inconscia che l’immagine porge a colui che la osserva; quando si porta questa tensione a livello del corpo, si pongono di fronte a noi altri orizzonti. Ciò che ci preme è capire come superare non tanto uno spettro della ripetizione, quanto il fare e procedere. Sopravvivenza è una sorta di memoria fluttuante che la figura cerca di carpire per ritrovare la forza del passo successivo. Warburg parla di incorporamento. Cosa incorporare? Forse il tentativo è quello di andare verso una dimensione fantasmale, evanescente della figura. Nonostante tutto c’è la messa in campo di un corpo. Il corpo è sempre troppo duro, è sempre presente. Si tenta non di allontanarlo ma di portarlo a una condizione di scomparsa.»
Questa si potrebbe porre come la vostra urgenza, ciò che vi preme, vi spinge a portare in scena un lavoro tanto pregno. Si corre il rischio di portarlo a un pubblico avulso da questi concetti? Vi spaventa? Il pubblico può avere una ricezione immediata?
«Non c’è mai un ragionamento esatto su questa questione. Sappiamo dove ci troviamo, quando si crea e si studia c’è il momento di partecipazione di uno sguardo. Sentiamo la necessità di allontanarci da una condizione dialogica. Il lavoro è abitato da un’unica figura: questo rapporto è sempre presente. Ciascuno uomo nella sua solitudine dialoga con mondo e altri esseri. Non ignoriamo la possibilità che ci sia un altro essere che come spettatore vi si ponga di fronte. Non si ignora il rischio di un fallimento. Sentiamo la necessità di non procedere con una sorta di autismo creativo, ma siamo consapevoli che le regole che animano la scena sono regole di sopravvivenza molto diverse da quelle che abitano il mondo della visione dello spettatore.»
«Forse lo studio, la tensione della creazione non deve essere esposta, non per mantenere un segreto, forse l’esplicitazione di un percorso va a coprire la necessità dell’opera stessa solo perché non è dipinta rispetto a dettami più classici. Sentiamo la necessità di capire, fermandosi di fronte a opera stessa, ciò che può trasmettere. Non so fino a che punto i materiali didascalici siano indicazioni rispetto alla scelta di una linea più poetica e meno descrittiva.»
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Senza dubbio è la scelta di porsi in altro modo rispetto alla brama di sapere da dove e fino a che punto si arriva con una creazione.
«A volte nei proprio scritti si coglie qualcosa che va oltre la stessa scrittura. Nella creazione c’è pudore, un recinto che costruiamo con i nostri studi che può restare confinato e resta prossimo a chi crea. Questa prossimità non corrisponde al prodotto che è sulla scena.»
Corrispondenza potrebbe significare rischio di collassare uno sull’altro, mantenere la prossimità significa concedere spazio alla creazione. Come lavorate e concepite lo spazio del Festival Crisalide?
«Il Festival Crisalide giunge quest’anno alla ventinovesima edizione, con l’intento di creare a fianco di una visibilità, un luogo di esperienza, condivisone e scambio per individuare in una parola, in un tema quel recinto entro cui prepararci per accogliere coloro che saranno spettatori, senza dare indicazioni, ma per poi operare delle scelte. Il Festival prosegue per creare condizioni per scambi di pensiero.»
Immagine di copertina: ph@Luca Del Pia
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