«So What or Kind of Blue, they were done in that era, the right hour, the right day, and it happened. It’s over […].But I have no feel for it anymore—it’s more like warmed-over turkey»
Un tacchino riscaldato, lasciato sul tavolo di una cucina deserta. È così che Miles Davis considera, a una trentina d’anni di distanza, il suo Kind of Blue (1959). La sua voce rauca e flebile, afona quasi, spiega che tutti i capolavori muoiono: non hanno nulla di magico, si concludono con l’esattezza di una stella che muore – a quell’ora, in quel momento, si registra un album che segna la storia della musica, poi è impossibile ripetersi. Gli anni cinquanta, ruggenti come i venti, si chiudono con la raucedine del blu di Miles Davis.
Gli anni Cinquanta sono l’esplosione jazz: una New York lunare brulica di insegne al neon (tonight, trio, quartet,magic, free, 9.pm, quintet) e un immaginario di tavoli coperti da superalcolici assilla le fantasie dei giovani che a New York non ci vivevano. Gli anni Cinquanta finiscono con un’implosione (l’ennesima nella sua lunga vita) del jazz, un’implosione utile. Dopo le architetture caotiche del free jazz dominato da Ornette Coleman, ritmi furiosi accavallati e sovrapposti allo stridore degli assoli, Miles Davis, placidamente, scardina le certezze del tempo.
Il trombettista americano recide i legami col passato bop e lo fa affinando un kind of Blue che non ha nulla a che vedere con il blues delle radici (semplice omofonia), è un tipo specifico di blue. Generato in quell’epoca, all’ora giusta, il giorno giusto. L’impazzare di suoni e fiati è deperito. Non ha più senso ascoltare brani al cardiopalma se la musica di Davis rallenta e dilata tutto. E infatti, oggi, l’album pubblicato cinquantasette anni fa dalla Columbia è considerato il blasone del jazz modale, è la pietra che apparirebbe all’inizio del film 1959 Odissea nel jazz: i critici musicali e gli ascoltatori le si affollano intorno, e da lì tutta la musica nera acquista un nuovo senso, più consapevole delle sue potenzialità.
È plausibile che tanto un artista hip-hop quanto uno indie o metal o un cantautore, possegga una copia di Kind of blue. Succede coi dischi che calamitano influenze passate e ispirazioni future, e dei quali è difficile diventare epigoni (ecco perché dopo trent’anni Davis lo bolla come «tacchino riscaldato»). Ma oltre alla sua classicità irripetibile contiene, e non è altro che un risvolto di questa, tracce tuttora presenti nelle basi di artisti R&B e hip-hop. È una sensualità implicita, lasciata scorrere in silenzio sotto una ritmica disciplinata ma fluida. Basta ascoltare, nel primo brano di Kind of blue, So What, l’entrata della batteria di Jimmy Cobb dopo il piano e il contrabbasso. Impercettibile, ma dà tono e volume al disco. Un minuto e mezzo per presentare il tema che ora è uno standard – così si chiamano i brani da manuale – con le corde baritonali suonate da Paul Chambers, mentre il pianoforte di Bill Evans marca gli ultimi due tocchi; un minuto e mezzo, e poi si sente la tromba di Davis allungarsi senza fretta nota su nota grazie a una precisione, finora sconosciuta al jazz, libera di modellare le note. La batteria e la sezione ritmica, sullo sfondo.
I nomi del sestetto sono di alto rango: Bill Evans al piano, Paul Chambers al contrabbasso, John Coltrane e Cannonball Adderley al sassofono (tenore e contralto), Jimmy Cobb alla batteria. C’è solo una variazione, entra il pianista Wynton Kelly in Freddie Freeloader, ballata blues dedicata a uno spettatore che era solito pretendere di assistere ai concerti senza pagare (freeloading) il biglietto. Questo dimostra la sapienza compositrice di Miles Davis: sa già a cosa si deve avvicinare l’esecuzione di un brano, ne avverte in anticipo l’esito oggettivo. In questo caso gli serviva l’andamento più scanzonato di un pianista blues, in accordo con la natura di Freddie. Altra voce è quella di Flamenco Sketches.
Al lato B dell’LP è toccata la sorte degli eterni secondi. Lo stupore, per il tempo d’allora e per oggi, spalancato da So what continua con Freddie Freeloader, ballata pigra e radiosa, il tipico jazz piacione, che non ha però nulla di frenetico. A chiusura del primo lato c’è Blue in Green, dove il pianoforte di Bill Evans annulla il sorriso sornione di Freddie: le luci al neon della Grande Mela ritornano con questo ultimo brano, ma malandate, ricordano un quadro di Hopper. Premonizione al lato B.
E la seconda parte nasconde la madreperla dell’album, due pezzi pregiati. Il tremolio di All blues è fatto di accordi di settima, la caratteristica più inflazionata del blues, ma il sestetto forza i moduli della tradizione, riempiendo questi undici minuti di settime. La strategia compositiva di Miles Davis è famosa: il trombettista forniva al resto del gruppo giusto uno scheletro musicale, i rudimenti di ciascun brani, nonostante il jazz fino ad allora si fosse servito di architetture sovrumane. Il musicista col filo di voce preferisce lasciare lo spazio all’improvvisazione modale. E gli undici minuti di All blues, dunque, sono l’enunciazione musicale di questa teoria secondo la quale il jazz deve dire l’emozione più difficile da nominare, la solitudine, con il rigore dimesso e la libera ispirazione.
Finito il reticolato di All blues segue il pezzo di chiusura. Flamenco Sketches riporta ancora nei crediti il nome di Bill Evans, e si avverte la sua mano dal tono insieme fresco e profondo, tono che gli amanti di Waltz for Debby riconoscono con facilità. Che il solo del pianista nella seconda metà della canzone sia di rara bellezza, tanto essenziale da essere etereo, quelle note alte suonate con parsimonia come se il direttore avesse ordinato di togliere e di evitare suoni a vanvera, che l’assolo di Bill Evans sia il penultimo prima di quello – stavolta sì – definitivo di Miles Davis, dimostra che Kind of Blue è un disco-sistema dove tutti i pianeti compiono un proprio giro. Eppure non c’è armonia perfetta. Rimane il margine d’imperfezione che hanno tutte le cose irripetibili. Il blue misterioso di un album che ha riscosso innumerevoli incassi – qualcuno parla di record per la storia del jazz – eppure parla di solitudine.
Andrea Piasentini
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