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Kafka secondo Deleuze e Guattari: per una letteratura minore

dalla newsletter n. 40 - giugno 2024

5 minuti di lettura

Il pensiero di Gilles Deleuze, ricco nei temi e nei riferimenti, fucina di concetti e di parole, ha come filo rosso il tentativo di cogliere la vita nel suo movimento, al di là del processo di fissazione cui conduce ogni strumento rappresentativo. Ciò non vuol dire che Gilles Deleuze proponga una filosofia dell’indifferenziato e auspichi che il pensiero debba dissolversi seguendo la fugacità del divenire. Piuttosto, il tentativo della filosofia, come della scienza e dell’arte, dovrebbe essere quello di affrontare il caos della vita immanente dandogli un ordine che non snaturi il suo statuto virtuale e in continua trasformazione, che non obbedisca a criteri trascendenti dalla vita stessa.

Esempio capitale di una scrittura in grado di sottrarsi a ogni lettura interpretativa per realizzare invece una continua sperimentazione è l’opera di Franz Kafka, che Gilles Deleuze e Félix Guattari presentano come autore del divenire, scrittore senza stile, nel volume sulla «letteratura minore». Ma cosa significa una letteratura minore? Non indica «la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore» rispondono gli autori. Il primo dei caratteri di una letteratura di questo tipo è la deterritorializzazione della lingua. Con il concetto di deterritorializzazione, introdotto per la prima volta nel 1972, nell’AntiŒdipe (prima opera scritta da Gilles Deleuze con Félix Guattari), gli autori designano un movimento di uscita da un territorio abituale, inteso in senso proprio o figurato, e la conseguente entrata in un nuovo ambito: deterritorializzata, defunzionalizzata, ad esempio, è la bocca quando smette di mangiare per mettersi a cantare. Dal punto di vista linguistico, si pensi – affermano Deleuze e Guattari – a cosa sono in grado di fare i neri con l’americano, nel cosiddetto Black English, nel quale una lingua egemonica viene corrotta, lavorata dal di dentro dalle minoranze; ma si pensi anche al francese stereotipato e povero, depauperato, di alcuni film di Jean-Luc Godard. Minore, quindi, non è il dialetto o la lingua parlata da una minoranza, quanto il trattamento creativo che si fa di una lingua anche maggiore, il divenire che la percorre variandola e forzandola.

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Nel caso di Kafka, ebreo di Praga, si tratta di una continua fuga della lingua da se stessa, nell’oscillazione tra possibilità e impossibilità dell’uso del tedesco, una oscillazione che non può risolversi e diviene doppio vincolo. L’esito non può essere altro che quello di fare del tedesco stesso una lingua della minoranza: il tedesco influenzato dal ceco, che produce frasi sintatticamente scorrette, e il cui vocabolario è scarno e come prosciugato. Ma sono deterritorializzazioni della lingua anche i fischi, i pigolii, i muggiti, le tossi dei personaggi e degli animali presenti nei suoi racconti. Altrove, Gilles Deleuze descrive la deterritorializzazione compiuta dalla letteratura insistendo su due verbi. Il primo è «fuggire», movimento che può farsi anche sul posto a patto di “uscire dal solco”, linea di fuga che non torna indietro e ricomincia sempre dal mezzo, non evasione nell’immaginario e nella fantasia, ma al contrario produzione di realtà. Queste pagine sulla linea di fuga come linea spezzata, interrotta e ripresa – in cui ciò che conta è il percorso più dell’origine e dell’esito – contrappongono il pensare in termini di albero, con le sue radici e la sua verticalità, all’erba che cresce in mezzo alle cose e i cui steli crescono a partire dal centro. Si tratta di una contrapposizione che compare anche in altri luoghi dell’opera di Gilles Deleuze e che sembra riecheggiare alcuni appunti contenuti nei diari dello stesso Kafka: «Tutte le idee che mi vengono non mi vengono dalla loro radice, ma soltanto da qualche punto verso la metà». L’altro verbo su cui si sofferma Gilles Deleuze nelle pagine sulla letteratura anglo-americana è «tradire», cioè propriamente spostarsi, divenire-altro senza che questo significhi imitare, utilizzare simboli. Anche in questo caso Kafka sembra porsi come esempio principe, in quanto autore della Metamorfosi e di una serie di racconti in cui presenta quelli che i due filosofi chiamano divenire-animale senza che tra l’umano e l’animale raccontati vi sia mai un rapporto di semplice mimesi, senza che l’animale protagonista sia un mero simbolo in sostituzione di qualcos’altro.

Il secondo carattere della letteratura minore è linnesto immediato dell’individuale sul politico. In essa «tutto è politica», ovvero, non c’è uno sfondo, un contesto storico-politico contro cui si stagliano le vicende dei personaggi, come accade nelle «grandi letterature», ma il fatto individuale è immediatamente fatto politico, e questo proprio a causa della esiguità dello spazio: «Il fatto individuale diviene quindi tanto più necessario, indispensabile, ingrandito al microscopio, quanto più in esso si agita una storia ben diversa» (Deleuze, Guattari, 1975: 30).

Così il fantasma edipico, la famiglia evocata dagli scritti di Kafka, diviene anche subito problema commerciale, burocratico, politico. Lo stesso scrittore nei suoi diari, riflettendo proprio sulle «piccole letterature», notava che la conseguenza dei limiti ristretti dei «piccoli argomenti» è un legame immediato con i grandi temi:

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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