Prendi un giorno una biblioteca di provincia e un giovane lettore annoiato che cerca qualcosa che non abbia ancora letto tra le tante cose che ha letto. Prendi una copertina gialla con una sagoma nera piena di pesciolini d’oro e il gioco è fatto. È Un certo Lucas, di Julio Cortázar e se il lettore non ha mai letto nulla di questo Julio tanto meglio, si comincia così.
È il 1979: Julio Cortázar compie sessantacinque anni ed è un anno importante. Pubblica Lucas, si separa dalla moglie Ugné Karvelis, appoggia la Rivoluzione in Nicaragua e viaggia a Panamá con Carol Dunlop, sua non ancora seconda moglie. Scelte politiche e sentimentali che si intrecciano per uno spirito «ilare e gentile e caloroso», come ricorda l’amico Italo Calvino, che aveva alle spalle la vita agra di un professore di provincia. Arrivato a Parigi a 37 anni, da genitori argentini, campava di mestieri umili e di traduzioni per l’ONU, prima di imporsi con il romanzo Rayuela (1963), tradotto in italiano come Il gioco del mondo (1969). Ma il nostro lettore ha scelto Lucas, che in Italia non era mai stai pubblicato per intero. Lo si trovava a stralci in Carte inaspettate, Einaudi 2012, ma è grazie alle Edizioni SUR, costola di mínimum fax specializzata in perle della letteratura, che oggi lo possiamo avere tra le mani tradotto in italiano da Ilde Carmignani due anni fa, a trent’anni dalla scomparsa dell’autore. Ad affiancarlo anche una recente edizione di Einaudi che inserisce Lucas nella raccolta completa dei racconti.
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Presentato spesso come una sorta di proseguimento di un’altra opera dell’autore, Storie di Cronopios e Famas, due gruppi di esserini che incarnano due opposte possibilità di esistere tra loro complementari, Lucas pone un primo grande problema al nostro lettore: che cos’è? Un romanzo? Una raccolta di racconti? Non è certo un romanzo, non è un saggio, non è nemmeno una raccolta di racconti come può essere Bestiario, o qualcosa che siamo abituati a definire come tale. Forse è bello pensare che si tratti semplicemente di un ritratto, un ritratto di un «personaggio» che, essendo nella sua natura finzionale tuttavia simile a una «persona», non si può dare in modo lineare, non si può etichettare, non si può conoscere fino in fondo o sempre nello stesso modo. Una sorta di tentativo di ritratto, che procede a salti e obbliga il lettore a perdere il fiato dietro a questo Lucas: «certo», definito, ma al contempo «un», indeterminato, come la sagoma sulla copertina. Ma non si stupisca il lettore perché stiamo pur sempre parlando di Cortázar, che scrive solo quello che ancora non è stato scritto, quello che ancora vale la pena scrivere e in formule che spiazzano per la precisione e la novità delle strutture e dell’uso della lingua. Come racconta lo stesso autore nelle Lezioni di letteratura tenute a Berkeley nel 1980, non aveva ancora dieci anni quando a scuola si era accorto che per i suoi compagni il mondo dell’immaginazione era qualcosa che non aveva a che fare con la vita o con la realtà: un’evasione gratuita, improduttiva. Per lui invece era l’apertura a nuove dimensioni, l’accettazione di «una realtà più grande, più elastica, più dilatata, in cui entrava tutto». E da qui la sua scrittura, e a volte la scelta del racconto o addirittura del microracconto in cui quello che non si dice per questioni di spazio è ancora più importante del detto, in cui si ricerca la perfezione anche nell’incompiutezza e in cui il lettore è chiamato a un compito di gran lunga più faticoso nel corso del patto di lettura, rispetto al romanzo.
Il secondo ostacolo per il nostro lettore è proprio Lucas, che a tratti sembra una maschera di Julio stesso. Lucas lo si può conoscere solo a morsi, prima in superficie, poi in seconda lettura in profondità. Lucas scrive, insegna spagnolo, è insofferente, malinconico, ironico fino alla morte, volgare e grottesco. Parla per immagini, ha un’idra che vorrebbe distruggere ma non riesce a distruggere, detesta l’ecologia perché è una menzogna, ama i gatti o quanto meno lo incuriosiscono, ha sviluppato una simpatica forma di nevrosi anche linguistica, non ha un’idea romantica dell’amore, disturba ai (cattivi) concerti perché fruga per terra spiegando di aver perso la musica. Ma Lucas è soprattutto un modo di guardare la realtà, disincantato e incantato insieme all’occorrenza, ad ampio raggio e nei dettagli più piccoli, tra il serio e il faceto. E così i gatti diventano telefoni che l’uomo non sa ascoltare (il limite della natura umana), la felicità un’iniezione di pesciolini d’oro che si comprano a venti dollari (una qualunque delle nostre moderne dipendenze), la metropolitana il luogo della discriminazione sociale, un amore finito, un dialogo lasciato sospeso tra le pagine, una corsa all’ospedale, quell’improvvisa paurosa consapevolezza che la vita finisce. Lucas ci costringe a rimetterci in discussione riga dopo riga: abbiamo capito qualcosa di lui o non abbiamo capito niente? Ci fa saltare qua e là e facciamo fatica a stargli dietro, dobbiamo rileggere quello che sputa fuori per arrivare al nocciolo della sua identità, ammesso che ci si arrivi. È un personaggio da rincorrere, una serie di frammenti scomposti che alla fine, visti da una giusta distanza, mostrano qualcuno che sta su un piano tutto suo, su un altro livello.
Ma Un certo Lucas è anche, di nascosto, qua e là, una meravigliosa riflessione sulla scrittura e sul suo scopo. Lucas infatti è anche uno scrittore, addirittura un poeta, e come tale sa che la sua parola ha bisogno di un destinatario per avere valore, ma che alla fin fine vale tanto quanto quella del destinatario stesso, di cui non gli importa nulla:
Lucas guarda nel palmo della mano la parola destinatario, le accarezza appena il pelame e la restituisce al suo limbo incerto; non gli importa un fico secco del destinatario visto che ce l’ha lì a tiro, a scrivere quello che lui legge e a leggere quello che lui scrive, quante seghe.
È consapevole poi che la lettura è un modo di essere prigioniero, che qualcuno in qualche modo ti manipola, ti controlla e forse ti prende anche in giro, mentre leggi, eppure leggere resta una delle maggiori forme di libertà. Come la maggior parte degli scrittori Lucas scrive di notte, almeno nella sua testa quando l’insonnia e l’ipnofobia lo assalgono, e prende posizione nei dibattiti sul valore della letteratura, quando lo chiamano in causa. Lucas crede che non si possa porre un freno al progredire della scrittura oltre l’inesplorato, che non ci sono limiti all’immaginazione se non quelli della parola, dal cui scontro nasce la Grande letteratura. Per poi concludere che in realtà
Non sappiamo nulla di questo vago sapere,/di questa fatalità che ci porta/ a nuotare al disotto delle cose, ad arrampicarci su un avverbio/ che ci svela territori, cento nuove isole,/ bucanieri armati di Remington o penna/ all’assalto di verbi o frasi semplici/ o a ricevere in piena faccia il vento/ di un sostantivo che contiene un’aquila
annullando così ogni impegno morale a tutti i costi per rivendicare la libertà delle proprie sperimentazioni letterarie. Infine, forse come il suo autore, anche Lucas cerca la perfezione della parola scritta: ecco perché i refusi e gli errori si trasformano in ratti che divorano le parole, ratti che vivono nel corpo di chi scrive, da annientare con il DDT.
Julio si percepisce in ogni pagina, ma è in Cacciatore di crepuscoli che si infila con una sorta di personale manifesto poetico di una bellezza tale da lasciare il nostro lettore, che lo ha appena conosciuto, già a bocca aperta, pronto a prendersi un’edizione completa di tutti i suoi testi e divorarla:
Comunque, se fossi un cineasta, credo che mi arrangerei in modo da andare a caccia di crepuscoli, in realtà di un unico crepuscolo, solo che per arrivare al crepuscolo definitivo dovrei filmarne quaranta o cinquanta, perché se fossi un cineasta avrei le stesse esigenze che ho con le parole, le donne o la geopolitica. Non sono un cineasta e mi consolo immaginando il crepuscolo già catturato, che dorme nella sua lunghissima spirale in scatola. Il mio piano: non soltanto la caccia, ma la restituzione del crepuscolo ai miei simili che lo conoscono poco, voglio dire alla gente di città che vede tramontare il sole, se lo vede, dietro il palazzo delle poste, dietro gli appartamenti di fronte o in un suborizzonte di antenne televisive e lampioni.
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