Quella di Jean-Paul Sartre viene spesso etichettata come una «filosofia della disperazione», ma in realtà è una filosofia dell’impegno, dei fatti, della fenomenologia del proprio essere. Dai romanzi al teatro ai saggi: un percorso alla scoperta dell’esistenzialismo sartriano.
Il 29 ottobre 1945, il club Maintenant di Parigi ospita per una conferenza Jean-Paul Sartre, filosofo esistenzialista francese. Alle sue spalle ha libri di psicologia (l’Immaginazione, l’Immaginario), drammi teatrali, come A Porte Chiuse, romanzi e raccolte di racconti come La Nausea e Il Muro, alcuni scritti filosofici come La Trascendenza dell’Ego e il suo testo di più ampio respiro, L’Essere e il Nulla. Nonostante la pubblicità e gli annunci sui maggiori quotidiani e riviste dell’epoca, il fallimento potrebbe essere dietro l’angolo.
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Il giorno della conferenza le cose andarono diversamente. Sedie rotte, giornalisti, accademici, signore in pelliccia ammassati gli uni sugli altri per ascoltare questo piccolo uomo strabico e vestito di scuro, svenimenti. In poco tempo, la moda dell’esistenzialismo scoppia. Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir diventano ben presto la coppia cardine attorno a cui gira tutta la movida in di Parigi, quella che frequenta i locali della Rive Gauche, che brinda all’«insensatezza della vita», che a cena andava in un piccolo ristorantino al 10 di Rue Jacob, dove si potevano spendere pochi franchi e mangiare dignitosamente [Storia appassionata del poliedrico e geniale artista Boris Vian, di P. Rinaldis in Il fatto quotidianoBlog del 17 maggio 2014].
Che Sartre avrebbe fatto parlare di sé era chiaro, nonostante i dubbi di Raymond Aron nelle sue Memorie [R. Aron, Memoires, 1983]. Certo è che, fin da giovane, Sartre possedeva una sconfinata fiducia in se stesso e un animo ribelle. «Sartre detestava le routine e le gerarchie, le carriere, i focolari, i diritti e i doveri, tutto il serio della vita. Non si adattava all’idea di fare un mestiere, di avere dei colleghi, dei superiori, delle regole da osservare e da imporre; non sarebbe mai diventato un padre di famiglia e nemmeno un uomo sposato», scriveva la sua compagna Simone de Beauvoir, nelle Memorie di una Ragazza per bene.
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Fin dai tempi della riforma della psicologia, Sartre si impone come un innovatore: dopo aver studiato filosofia, psicologia, soprattutto quella della Gestalt, e dopo uno stage in Germania a Friburgo, dove ebbe modo di studiare Edmund Husserl e Martin Heidegger, scrisse trattati in cui tentava di smantellare l’atteggiamento positivista e quel «feticismo per l’interiorità» tipico della psicologia francese a favore di una psicologia fenomenologica. Come ci dice Sergio Moravia [S. Moravia, Introduzione al pensiero di Sartre, 1990] queste prime opere di Sartre, sono tutt’altro che immature.
Tuttavia è con il romanzo che Sartre si imporrà nel panorama francese. Di solito, siamo abituati a pensare a un romanzo come una storia, con le sue implicazioni filosofiche, certo, ma comunque una storia. Con Sartre, e con La Nausea, siamo di fronte a un caso anomalo: come noterà Albert Camus, considerato il grande rivale di Sartre, per via di una divergenza politica, La Nausea è un monologo in cui l’autore espone la sua teoria dell’assurdo. All’inizio della sua recensione sull’Alger Republicain scriverà «un romanzo non è mai altro che una filosofia messa in immagini», intuendo la grande differenza tra Sartre e la narrativa a lui contemporanea (forse solo Marcel Proust e Fëdor Dostoevskij riusciranno a coniugare filosofia e letteratura meglio di Sartre).
di Margherita Vitali
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