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Je ne suis pas Black bloc

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3 minuti di lettura

di Davide Cassese

La giornata del Primo maggio è stata l’apoteosi della frattura del nostro paese. Un giorno come quello che onora i lavoratori e le loro difficoltà dovrebbe far riflettere, in base a quanto visto dagli ultimi dati sulla disoccupazione, dovrebbe essere un giorno che unisce le persone, rendendole solidali tra loro. Invece mai come ieri l’Italia era fratturata. Divisa. Spacc(i)ata. A dispetto del sempre fascinoso ma ormai consunto concertone di Roma, a Taranto c’erano duecentomila persone per un Primo maggio diverso. Un Primo maggio dove davvero si sentiva l’acre odore della difficoltà, del ricatto e della disoccupazione, derivante soprattutto dall’aria pesante e invadente dell’Ilva. Mentre a Taranto e a Roma si parlava di Diritti, di Musica, di Speranza e di Lavoro, a Milano inauguravano l’Expo. Anzi, #Expo. Milioni di visitatori. Senso di rinascita e di rivalsa. Mentre a Taranto hanno costruito un’alternativa netta a Piazza San Giovanni, a Milano hanno distrutto tutto ciò che Expo stava provando a costruire. Un paese crepato, dove ormai da anni va sedimentandosi un senso di divisione. Mentre alcuni cortei pacifici – perché c’erano anche quelli – manifestavano il loro pensiero – legittimo – diametralmente opposto ad Expo e alle sue logiche, uomini (tra)vestiti di nero seminavano il panico intrufolandosi, con la consueta pervasività, tra i manifestanti. Con la solita imprevedibilità – che solo per il fatto di essere solita non è più imprevedibile – emergono questi esponenti del blocco nero che devastano, incendiano, e distruggono tutto. Già, il blocco nero. Anzi: i black bloc.

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Sentendoli nominare a qualche fanatico della storia giungono reminiscenze improvvise. Ma non li avevamo già sentiti nominare altre volte? Si, alcune volte perché coinvolti in scontri e devastazioni in Europa, altre volte perché hanno fatto parlare di sé anche in Italia, dapprima al G8 a Genova nel 2001 e poi a Roma dieci anni dopo.

Ma chi sono questi black bloc? Prendono il nome dalla loro divisa, di colore nero, non hanno una specifica collocazione politica, anche se i tribuni della generalizzazione ritengono che possano essere ascrivibili all’area di estrema sinistra o all’area anarchica. In realtà ci sono diverse ideologie annidate nei black bloc, ma l’unica ideologia che accomuna tali soggetti – spesso e volentieri equivoci – è la lotta spregiudicata al Capitalismo e a qualsiasi forma di potere che oberi la libertà. A Genova nel 2001 si sono fatti riconoscere per tre motivi: 1) inscenavano piccole rappresentazioni disponendosi a cerchio e camminando battendo dei tamburi, esibendo, fieri e indisturbati, il vessillo nero, come per dire “Noi ci siamo” ; 2) devastavano vetrine di banche, società finanziarie e macchine di alta cilindrata – simboli, secondo la loro visione, di un sistema di potere radicato che rappresenta il tessuto connettivo della nostra società; 3) riuscivano ad agire in piena libertà senza che nessuna forza dell’ordine – e ce ne erano tante, lì a Genova – li braccasse. Le truppe arrivavano sempre quando al posto dei black bloc si trovavano i cortei autorizzati che pativano colpi sordi e ingiustificati. I devastatori di professione, fin troppo di professione, quasi allenati(si) in campi di addestramento, svanivano nel nulla, ritrovandosi, compatti e ancora più agguerriti, in altri luoghi di raccolta.

 

milano corteo no expo (27)Sono questi i black bloc. Soggetti potenzialmente pericolosi che in ogni evento di rilievo fanno la loro magra, inutile, ma distruttiva comparsa. Soggetti che inneggiano alla libertà di espressione – che per loro è distruzione – ma che non comprendono come non facciano altro che mortificarla e pregiudicarla con le loro dimostrazioni così insulse e repellenti per chiunque avesse buonsenso. Tali azioni non fanno altro che esacerbare l’intolleranza verso voci diverse che manifestano pacificamente e che, impropriamente, si vedono uniformate a questi soggetti. Non fanno altro che creare altra tensione tra le forze dell’ordine e i manifestanti (pacifici). Già, le forze dell’ordine. I primi garantisti, in queste circostanze, diventano i paladini del lassismo. Ritengono che queste devastazioni stanno bene a chi si accanisce contro le forze di polizia, le quali non devono intervenire perché “quando intervengono si dice che sono violente, quando non intervengono chiedete aiuto”. L’Italia è il paese dove ad un abuso si sopperisce sempre con una mancanza. Un’idea di mezzo non c’è. Le forze dell’ordine, che rischiano la vita per uno stipendio da fame, devono intervenire per garantire la protezione delle persone, ma non sono per questo autorizzate ad abusare. A queste distruzioni dovremmo cercare di rimediare noi. Costruendo. Dichiarando che non è con la devastazione che si combatte un sistema, ma con la legalità, la forza delle idee e degli argomenti – per dirla alla Caparezza. Distacchiamoci da chi, incerto ed infervorato, dice alle telecamerine che “ bisogna distruggere tutto” e stigmatizziamo la violenza, sempre, perché la violenza ammazza i movimenti. Quando ammettiamo, e con forza, che noi un sistema come questo non lo vogliamo, dovremmo contribuire a cambiarlo, con un piccolo contributo quotidiano, fatto di legalità, di comprensione, di studio e di libertà. La tanto prostituita libertà che viene adattata ad ogni eventi con vesti diverse. Non solo perché “quei porci rubano” noi possiamo prenderci la libertà di devastare tutto. Non è una gara a chi fa più danni. La libertà non ha vesti. La libertà vestita è ingabbiata, svilita. La libertà è una e non dobbiamo costringerla. La libertà costretta è libertinaggio, esaltazione appagante del ribelle. La libertà propriamente detta è la mappa del rivoluzionario desiderio di costruire.

Coltiviamola.

 

Foto di Giorgia Alioto

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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