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Javelin, l’espiazione di Sufjan Stevens

Una dimensione quasi estatica, con la musica che diviene una vasca catartica in cui purificarsi. Nel nuovo album, il cantautore di Detroit rende la sua sofferenza un bene di tutti. E ci eleva verso un «higher place».

3 minuti di lettura

«Can you lift me up to a higher place?» domanda Sufjan Stevens in Everything That Rises, quarta traccia del suo nuovo album, Javelin, pubblicato il 6 ottobre dalla sua casa discografica Asthmatic Kitty. Tuttavia, è forse il disco intero del songwriter di Detroit a tentare di elevare l’ascoltatore verso un’altitudine, una dimensione quasi estatica. In ogni canzone di Javelin, Sufjan Stevens si propone infatti di dare una risposta a questa domanda, fornendone una dimostrazione attraverso la musica.

Cover dell’album. Fonte: asthmatickitty.com

Ritorno alle radici

Dopo ben otto anni e cinque album, Sufjan Stevens è tornato agli arpeggi e alle atmosfere mistiche e rarefatte che ci avevano conquistato nei suoi primi lavori e che lo avevano consacrato al grande pubblico con l’album Carrie & Lowell, nel 2015, e con il successo di Mystery Of Love, nel 2017, canzone scritta per la colonna sonora del film di Luca Guadagnino Call me by your name e che gli valse anche una candidatura agli Oscar come miglior canzone originale. Otto lunghi anni, passati tra sperimentazioni e cambi di cifra stilistica, quasi un cambio di identità – per lo meno, quella che credevamo di potergli attribuire.

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Sufjan Stevens è tornato, ma qualcosa è cambiato. Ascoltando Javelin nel complesso, si avverte una maturazione più complessa e definita dei lavori precedenti. Potremmo quasi affermare che molte delle tracce che lo compongono tendano a somigliarsi. Questo, se si considera la struttura musicale delle canzoni, può essere in parte vero. Tutte si contraddistinguono, infatti, per questa ascesa verso la quale conducono l’ascoltatore. Egli è lentamente rapito da un climax progressivo, che va dal delicato arpeggio iniziale – dolcissimo e magnetico, come lui meglio di chiunque altro sa fare – ai cori e a una dimensione collettiva, che sembra ti stia portando con sé, da qualche parte. In questo, il titolo dell’album non poteva essere più azzeccato: Stevens veste i panni del tiratore di giavellotto (javelin), che si carica pian piano, prima di lanciare il più in alto possibile la propria asta olimpionica.

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«Nothing else remains as once before»

L’album, realizzato in gran parte in solitaria, è percorso dall’interno da due storie personali della vita del cantautore, che si riflettono ampiamente nei testi da lui cantati. Nel 2023 gli è stata diagnosticata infatti la sindrome di Guillan-Barré, malattia autoimmune, che colpisce il sistema nervoso e che lo impossibilita al corretto funzionamento delle gambe: «Last month I woke up one morning and couldn’t walk», spiega sul suo profilo di Instagram, in cui racconta le fatiche quotidiane di una vita mutata improvvisamente.

Il 2023 non deve essere stato un anno semplice per Stevens che perse in aprile il compagno Evan Richardson IV, alla cui memoria è dedicato Javelin. Tutto ciò si sente nelle sue canzoni: canta di una sofferenza e di una consapevolezza che nulla sarà più come prima. In Goodby Evergreen, traccia iniziale, lo sentiamo come rivolgersi al suo vecchio amore, mentre afferma:

You know that I love you
But everything heaven sent 
Must burn out in the end. 

Per poi ritrattare, impaurito:

I’m frightened of the end
I’m drowing in my self-defense. 

Fino ad arrivare all’interrogativo, anch’esso sempreverde, per l’essere umano: Will anybody ever love me?. Stevens si dice disposto a tutto, purché gli venga fornita una soluzione a quella che, più che una domanda, si configura nella mente del cantautore come un vero e proprio arcano.

«Javelin» di Sufjan Stevens, dal misticismo alla redenzione

Eppure, tale sofferenza dichiarata sembra non trasparire poi eccessivamente dall’ascolto di Javelin. È come se Stevens cercasse una redenzione. Ogni canzone irrompe, infatti, in un paesaggio lirico, epico, collettivo. C’è una volontà di espiazione da parte di Sufjan Stevens nei confronti della sua musica. La strumentazione diviene infatti una vasca catartica in cui purificarsi ed espellere quel che di negativo porta con sé l’anima. Soprattutto, la forte dimensione collettiva, riprodotta dal frequente utilizzo di cori, porta un valore in più all’album: è l’universalità il prodotto ultimo del suo lavoro.

È qui che Javelin si distacca dai progetti del passato di Sufjan Stevens. Mentre in Illinois o in Carrie & Lowell – gemme dell’indie-folk e delle ballad delicatamente mistiche alla Sufjan – egli si apre, ponendo però la condizione che, parlando di storie personali, esse rimangano ancora un po’ sue, sfuggendo così ad un rapporto più diretto con il suo ascoltatore; con Javelin egli non ha più niente per cui nascondersi. Otto anni sono passati e portano con loro tale maturazione. Quello che Stevens fa è rendere la sua sofferenza un bene di tutti. Le canzoni dell’album cominciano, ma non sai mai bene in che luogo ti porteranno. Come afferma Sam Sodomsky di PitchFork, ogni canzone finisce in un posto più luminoso e rigoglioso di come era iniziata. In sostanza, ogni componimento si propone di elevare non solo l’autore stesso, ma i fruitori di Javelin, ad un livello superiore.

Can you lift me up to a higher place?

Si può dire che lui ci sia riuscito con noi.

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Margherita Coletta

Classe 1998. Laureata in Letteratura Musica e Spettacolo, con una tesi in critica letteraria. Attualmente studia Editoria e Giornalismo a Roma. Le piace girovagare e fare incontri lungo la via. Appassionata cacciatrice di storie, raccontagliene una e sarà felice.

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