Nel panorama della fotografia ceca d’avanguardia c’è un nome che più di tutti spicca per ingegno e capacità creativa. Un nome legato ad una storia particolare, quella di Jan, ragazzino ebreo nato a Praga, finito direttamente nelle mani di Josef Mengele (il medico di Auschwitz tristemente noto per gli esperimenti di eugenetica) e rimasto tremendamente solo dopo la morte dei familiari nel campo di Terezìn. Un ragazzino poi diventato uomo, che ha saputo trovare nella fotografia e nella pittura –mescolandole sapientemente insieme – una via di fuga, una forma di affetto inedita in cui esprimere la sua avversione per i canoni dell’epoca e la propria, personale idea di bellezza.Come teatro delle sue passioni sceglie, più per necessità che per desiderio, un grigio scantinato dalle pareti scrostrate, unico rifugio sicuro in una Cecoslovacchia che, finita la guerra, lo vuole prigioniero ideologico. Per evitare la scure della censura e i rigidi controlli della polizia, è in questa «cantina di 14 metri quadri» che Jan Saudek costruisce il suo mondo, fatto di muse e modelli tutt’altro che perfetti che, nudi o seminudi, vengono ritratti sullo sfondo di una parete dall’intonaco scrostato.
Al centro delle sue immagini ci sono corpi imperfetti, nani e ballerine da circo che si amano e si rincorrono in un tripudio di seni e labbra che lasciano poco all’immaginazione. Il bianco e nero della pellicola tende per volontà dell’artista a colorarsi di oro, verde e pastello, colori dell’anima che lo stesso Saudek realizza ad acquerello per mettere in scena l’inquietudine e la crudezza dei corpi esposti. Il male del mondo nazista, che Jan ha potuto toccare con mano, presenta un palcoscenico di finta perfezione, di bellezza assoluta, lineare, senza strappi o elementi fuori posto. Ora invece l’arte di Saudek è malinconica, ironica, onirica, inquietante eppur leggiadra. Le immagini che realizza hanno spesso come protagoniste donne adipose, in là con gli anni, quasi felliniane; difficile non vedere nella giunonica signora de Il bacio della morte la Saranghina di 8½, una “madre” procace e generosa pronta ad accogliere l’uomo in un universo di piacere e seduzione. Donne che si offrono ironiche al nostro sguardo, superando gli stereotipi e le vergogne mostrandosi in tutta la loro bellezza sotto l’unica finestra che si apre nell’intonaco scrostato e che, indicando il mondo fuori, rappresenta la sola opportunità della non emarginazione.
Ma nelle immagini in cui Saudek sembra colorare i suoi sogni d’amante senza tempo ci sono anche le kore, giovani donne simili a statue che, delicate e soffuse, compiono piccoli giochi di seduzione, trasformando in candida purezza quegli ammiccamenti sensuali che il mondo “perbene” non esiterebbe a giudicare. In alcune foto i richiami ai grandi maestri dell’arte sono evidenti ed espliciti, basti pensare a Omaggio al grande Vincent, dove I girasoli di Van Gogh fungono da unico elemento decorativo di una stanza spoglia che vede due amanti carponi protendersi l’uno verso l’altro in un casto bacio. Oppure a Lezione di mandolino, dove punizione e insegnamento diventano il pretesto per mettere in scena un rapporto saffico, proprio come ne La lezione di chitarra di Balthus in cui l’allieva si dibatte in un misto di piacere e dolore.
Le foto dell’artista praghese presentano quasi una rivalsa della sessualità femminile, la quale diviene sensualità consapevole e desiderio di possesso, volontà di esporsi, guardarsi e lasciarsi scoprire. Il suo è stato definito un erotismo disperato, forse perché mai fine a se stesso ma sempre pervaso da un senso di fragilità e dolcezza. È così che Saudek ritrae in tutta la sua umanità un piccolo e meraviglioso esercito di essersi umani, tutti imperfettamente erotici ma bellissimi e vivi nella loro diversa bellezza.