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Jan Patočka, il Socrate di Praga

Filosofo ceco del Novecento rimasto nell'ombra per decenni, riprende le teorie di Heidegger sui movimenti fondamentali dell'esistenza accentuandone l'aspetto della corporalità.

6 minuti di lettura

Chi è Jan Patočka? Purtroppo la maggior parte dei laureati italiani in Filosofia non saprebbe rispondere alla domanda.

Il Novecento pullula di filosofi tanto interessanti quanto sconosciuti, perché eclissati dalle personalità più esplosive che si sono affacciate a quel secolo o semplicemente perché morti troppo di recente per essere già oggetto di un’approfondita analisi critica e per essere riconosciuti come dei grandi. Si sa che è difficile accettare come “classico” qualcosa che è a noi praticamente contemporaneo.

Per Jan Patočka e il suo pensiero agli ostacoli sopracitati se ne aggiunge uno ulteriore: la lingua. I suoi scritti principali sono in ceco ed è solo grazie alle recenti traduzioni in francese, volte a valorizzarne il pensiero, che l’attenzione verso il filosofo è cresciuta anche in Italia.

Jan Patočka e il rapporto con Edmund Husserl

Jan Patočka nasce a Turnov, in Boemia, il primo giugno del 1906. La sua formazione avviene tra Praga, Parigi, Berlino e Friburgo, sotto la guida degli astri della filosofia novecentesca: il compaesano Edmund Husserl – con il quale il rapporto verrà sedimentato grazie all’amicizia con il suo assistente Eugen Fink – e Martin Heidegger. Il contatto con Heidegger avviene proprio negli anni del nazismo, motivo per il quale Husserl dà all’allievo un aut-aut: o segue le sue lezioni o quelle di Heidegger. Rassicurato il venerando maestro circa la propria volontà di terminare il proprio percorso di studi con lui, Patočka seguirà i seminari di Heidegger di nascosto, non riuscendo a resistere al magnetico richiamo della filosofia dell’autore di Essere e Tempo.

È proprio dalla volontà di leggere Husserl con le lenti di Heidegger, e viceversa, che nasce la sua personale filosofia; egli vede in entrambi lacune che possono essere colmate tramite il pensiero dell’altro.

La grossa critica rivolta a Husserl è quella di portare avanti una fenomenologia soggettiva, contrariamente alle sue proprie dichiarazioni, nella quale il soggetto si autopercepisce in maniera introspettiva. Invece Patočka, tramite la lettura di Essere e Tempo, arriva alla definizione di una fenomenologia a-soggettiva. All’interno dell’opera principale di Heidegger scopre che la riflessione dell’io non ha un carattere introspettivo, bensì pratico. Il soggetto interpreta le possibilità, cioè rende chiara la connessione – fino a quel momento non esplicita – di mezzi e fini: l’io è quella stessa connessione. Non a caso il comprendere heideggeriano non è conoscenza teoretica, ma conoscenza pratica, è un saperci fare nel mondo. Ed è questa la chiave per raggiungere una fenomenologia asoggettiva, in cui il primato vada alla correlazione tra soggetto e oggetto, non al soggetto che si autopercepisce.

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I tre movimenti heideggeriani

Da Heidegger viene ripreso l’importante concetto di movimento (kinesis) su cui si basa il punto fondamentale della filosofia patočkiana: l’analisi dell’esistenza tramite tre movimenti fondamentali. Se Heidegger analizza i movimenti dal punto di vista temporale con la definizione del Dasein (l’esserci) come cura – essere avanti a sé (futuro) già in un mondo (passato) in quanto essere presso l’ente che si incontra dentro il mondo (presente)- Jan Patočka invece sottolinea l’aspetto della corporeità, che viene completamente sacrificato da Heidegger a causa del rifiuto dell’antropologia tradizionale. I tre movimenti fondamentali dell’esistenza si riferiscono innanzitutto al soggetto come corpo.

Il primo è il radicamento nel mondo e negli altri (il passato heideggeriano), il secondo è il prolungamento di sé tramite il lavoro (il presente heideggeriano) e il terzo è l’apertura, la dedizione agli altri, il sacrificio (il futuro heideggeriano) che rappresenta, nella prospettiva patočkiana, il raggiungimento dell’autenticità e della libertà – vedremo in conclusione come Patočka abbia vissuto in prima persona questa istanza filosofica.

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Lo studio puntuale dei tre movimenti è contenuto nel saggio Il mondo naturale e la fenomenologia. Innanzitutto viene specificato il contesto dei movimenti: essi non avvengono in uno spazio astratto, bensì con i due referenti cosmologici di terra e cielo. La terra è l’orizzonte naturale, il suolo primordiale, il corpo che permette a tutti gli altri corpi di essere misurati. Noi siamo un prolungamento della terra, siamo generati dalla terra, che partorisce la vita e generandola si nasconde, diventa lo sfondo necessario ma invisibile all’occhio distratto. L’uomo dipende dalla terra per il ritmo fondamentale dei bisogni corporei. Ma la terra da sola non basta, se essa dice il “dove” è necessario un referente che dica il “quando”, e questo è il cielo. Mentre la terra è l’essenzialmente vicino, il cielo è l’essenzialmente lontano. Il cielo segna il giorno e la notte e ne mostra il trascorrere, per questo dona il quando, pur donando simultaneamente anche il dove: sulla terra ci si ritrova guardando il cielo.

Ciò che rende la filosofia di Jan Patočka estremamente stimolante è proprio la sua attenzione alle esigenze ancestrali sul piano filosofico. Compie un’indagine dell’esistenza comune a tutti gli uomini che non è già giocata sul piano della precomprensione filosofica, ma parte da quanto di più terreno e primitivo, volendo anche “banale”, si possa pensare dell’esistenza dell’uomo.

La relazione dell’io con il mondo

Il perno dei tre movimenti è il legame, si può dire che “in principio era il legame”, quello tra io e tu. Vedremo com’è la relazione a rappresentare il principio di individuazione, non certo di alienazione (e qui a mio avviso non si può non sentire l’eco di quella sesta Tesi su Feuerbach di Marx per la quale la vera essenza dell’uomo non esiste in astratto, all’interno di una definizione, ma solo nelle relazioni sociali tra gli uomini).

Non a caso il primo movimento è proprio quello del radicamento, che è in primo luogo un radicamento nell’altro che ci offre accoglienza. Il sì alla vita non è istintuale, avviene solo a partire dall’accettazione dell’altro e dal suo prendersi cura di noi. Con la nascita noi siamo gettati in un mondo che ci pre-esiste e che rappresenterà il nostro costante sfondo di senso. In questo sta la contingenza dell’esistenza che si ritrova in un posto che non ha scelto per sé, ma che le è semplicemente capitato. La dimora originaria in cui ci troviamo sono gli altri, il primo coglimento di noi stessi avviene in un rapporto duale io-tu. Anche l’amore del rapporto erotico appartiene a questo primo movimento, in esso si manifesta la ricerca di un’unione felice che riporti all’originale unione con il mondo e oltrepassi l’individuazione che è avvenuta tramite la nascita. In questo primo movimento i bisogni vengono soddisfatti immediatamente e istintivamente.

Il bisogno è la base del secondo movimento, quello del prolungamento di sé tramite il lavoro. In esso si realizza un governo pratico dei bisogni che prevede una loro organizzazione e un differimento del loro soddisfacimento nel tempo. Qui il rapporto predominante è al presente: si manipolano gli enti per i propri scopi, ignorando passato e futuro. È una modalità di esistenza atomizzata e frammentata che dunque corrisponde alla reificazione e all’alienazione. Infatti all’interno di questo momento il rapporto con gli altri non è di intersoggettività ma di fissazione del ruolo: nel mondo del lavoro ognuno è fissato dal ruolo che svolge e messo in contrapposizione rispetto agli altri. Ciò porta alla lotta tra le persone e alla lotta sulle cose. Questo secondo movimento è l’analogo dell’esistenza inautentica heideggeriana.

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Per superare l’esistenza inautentica Patočka approda al terzo movimento, quello di apertura e di verità. È evidente il primato ontologico che egli conferisce a questo movimento, pur essendo necessari i primi due perché il terzo sia possibile. Il terzo movimento scuote la situazione data, per questo Patočka parla della scossa di terremoto come esperienza fondante di esso. È caratterizzato dalla lotta, nel senso più profondo del termine, non quello degradante visto all’interno del secondo movimento. Lotta in senso politico contro l’oppressione del potere e lotta in senso filosofico per il mantenimento dell’apertura di senso, contro l’irrigidimento della verità dogmatica. È un movimento di dedizione di sé all’altro, di sacrificio all’altro che scuota e distrugga le barriere che dividono: porta a una comunità di persone che si co-appartengono nella stessa dedizione. Si tratta allora di un’apertura alla verità del mondo come totalità: in questo modo l’esistenza impara a vedere in maniera differente se stessa e tutte le singole cose.

Lo scuotimento necessario al terzo movimento è uno sradicamento, ed è dunque qualcosa di pericoloso, che però condurrà ad una “solidarietà degli scossi”, a una soggettività intersoggettività.

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La lotta di Jan Patočka con il governo

Queste pagine che parlano del sacrificio senza riserve nei confronti degli altri, dell’abbandono di ogni sicurezza sono tanto più belle quanto più si considera che Patočka ha voluto attuare biograficamente il terzo movimento.

A causa della mancata attuazione da parte del governo cecoslovacco degli impegni sottoscritti in materia di diritti umani nella conferenza di Helsinki del 1975, un gruppo di intellettuali cechi scrive la dichiarazione di Charta 77, un documento che intendeva denunciare tale situazione. Si tratta della più importante iniziativa di dissenso in Cecoslovacchia e Patočka ne diventa portavoce.

La repressione del governo non si fa attendere. Patočka muore in quello stesso anno in seguito agli sfiancanti interrogatori della polizia che gli procurano un attacco cardiaco a seguito del quale deve essere ricoverato in ospedale: neanche qui si interrompe l’opera repressiva della polizia a seguito di un altro interrogatorio sopravviene un’emorragia cerebrale che lo porterà alla morte, dopo tre giorni di coma, il 13 Marzo. Nonostante lo stato di prostrazione fisica abbiamo testimonianze del suo lavoro fino a pochi giorni prima della morte: dell’8 Marzo è la stesura di un documento che è considerato il suo testamento politico, nel quale dichiara che «le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui vale la pena di vivere».

Non riesce allora difficile comprendere perché Jan Patočka venga ricordato come il Socrate di Praga.

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Giovanna Dri

25 Anni. Bergamo. Laureata in Scienze Filosofiche in Statale a Milano. Insegnante di Filosofia e Storia.

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