In scena al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 28 gennaio uno degli ultimi progetti scritti e diretti da Serena Sinigaglia, Isabel Green, con Maria Pilar Pérez Aspa nel ruolo di una attrice holliwoodiana al picco della sua carriera, divorata da una vita a cui non sente più di appartenere.
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Sul palco del Dolby Theater attraversato da lingue di fumo che sconfinano fino alla platea, eliminando qualsiasi distanza tra il palco e il pubblico, nel suo abito lungo e rosso Isabel stringe tra le mani la statuetta dell’Oscar: coronamento di un sogno di bambina, momento agognato per anni senza mai essere esaudita, eccola finalmente lì. Pare una dea, che si innalza in tutta la sua bellezza da una una stella che ricorda la conchiglia da cui emerge la Venere di Botticelli, priva però delle pennellate chiare e luminose dell’originale.
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Maria Pilar Pérez Aspa è abilissima nell’alternare i due piani su cui si articola il suo discorso, a trasmettere in modo immediato l’ambivalenza irriducibile dell’esperienza che sta vivendo. Due le voci, quella dell’attrice come stereotipo, da cui tutti si aspettano determinate affermazioni, ma soprattutto quella dei suoi pensieri, perché Isabel pensa ad alta voce, straziata e straziante, e nel farlo cerca di autoconvincersi a essere felice (come se fosse così facile!) per avere finalmente raggiunto il traguardo della vita e della carriera, «hai soltanto vinto, ma ora fai questo maledetto discorso», scongiura quella voce. E pensare che quel discorso Isabel l’aveva preparato già sette volte, sette come le nomination ricevute, senza mai vincere, ma questa volta niente, si era rassegnata, e ironia della sorte ora eccola lì, costretta a intervenire, nessun tentennamento permesso: ha solo 45 secondi, eppure il tempo sembra dilatarsi nell’enorme quantità di pensieri che dentro la sua testa si rincorrono, che ora cercano di spingerla a parlare, ora la frenano, nella consapevolezza latente che qualsiasi cosa dirà saranno falsità, luoghi comuni, frasi strappalacrime richieste dal contesto, emozioni surrogate e artificiali.
Il discorso si consuma tra frasi ad effetto che procurano grandi applausi da parte del pubblico, pause, scoppi di pianto improvvisi e scuse, tentativi di ringraziamento con Isabel che chiede addirittura qualche secondo in eccedenza, non riesce a capacitarsi di avere già finito, di aver già esaurito irrimediabilmente quei pochi secondi di gloria attesi e sudati per tutta la sua vita.
Ed è proprio a quel punto, consumato il tempo utile della sua presenza lì, al Dolby Theater, che Isabel si rende conto di non voler affatto andarsene, di non avere per nulla la forza di scendere da quel palcoscenico tragico, e allora prende delle scuse, assicura di dover dire delle cose molto importanti, senza rendersi conto di aver ormai perso qualsiasi controllo: inizia così ad avere allucinazioni, a straparlare, in un vortice al limite della sfera consica e ormai caduta della piena irrazionalità Isabel esprime tutta la tragicità di quella meta.
Ma ecco che dal delirio, da una perdita totale del controllo che porta Isabel fino al punto di sfoderare una pistola dal vestito, minacciando membri della giuria, colleghi, persino il pubblico, scaturisce una lucidità imprevista. Quello che si manifesta come un chiaro sintomo di un esaurimento personale, tipico della stella hollywoodiana in preda a una crisi nervosa e consapevole di essere malata, «sì, e sono contagiosa, non toccatemi» assume tuttavia i tratti di un dramma tutt’altro che personale e, anzi, diffuso trasversalmente alla società.
Il dramma di un lavoro ritornato a più livelli a uno stato di schiavitù, ma che, rispetto al passato, presenta l’aggravante che a volte «è il lavoratore alienato» stesso ad autoimporsi un regime di schiavitù, a confondere il tempo libero con il lavoro in un campo indistinto dove la possibilità di realizzare la propria vita, i propri affetti e i propri progetti viene subordinata a ritmi di lavoro insostenibili che divengono fini a se stessi, nell’oblio della pluralità dei fini che stanno fuori da lì; dove l’unico obiettivo diventa la perdita di qualsiasi lucidità, in modo da dimenticarsi di avere fini quotidiani, per quanto insignificanti forse, rispetto alla vincita di un Oscar: Isabel lo sognava sin da bambina e continua a agognarlo da adulta, ma proiettata verso una meta apparentemente irraggiungibile Isabel si dimentica di vivere, e allo stesso tempo di avere un figlio, che ora non riesce a vedere diversamente da un perfetto sconosciuto. Un lavoro totalizzante che l’ha portata a raggiungere una meta che, una volta raggiunta, la rende profondamente infelice, come se il percorso per portarla lì le avesse già succhiato ogni possibile felicità, dal momento che la felicità, suo malgrado, non è un valore assoluto né il fine, con la effe maiuscola. Va praticata giorno per giorno, assolutizzarla rischia di creare dolorosi fraintendimenti.
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Il finale tragico, risolutore di un climax che attraversa i 60 intensi minuti di monologo, non fa che confermare questa idea: quello sforzo disumano per raggiungere la meta – una vita senza felicità – avrebbe potuto essere bilanciato soltanto da una permanenza fuori dal tempo, incalcolabile, se non persino illimitata, su quel palcoscenico a cui lei aveva deciso di finalizzare tutta la sua esistenza. L’estrema caducità e inconsistenza di quel momento è insopportabile, lo scarto è troppo grande per essere anche solo concepito: per una simile, inconciliabile distanza, soltanto un gesto estremo volto ad annullarla.
Un’operazione artistica densa e coraggiosa, quella della Sinigaglia, che unisce alla forza nel trattare un problema spesso lasciato ai margini o reificato nel mito di star alla Marilyn Monroe, la capacità di renderne universali le implicazioni e le domande. Abilissima in questo la Pilar Pérez Aspa, che vola con maestria tra una piena identificazione con il ruolo della stella holliwoodiana e un bisogno sempre più disperato di ordinarietà, testimoniata da quelle numerose cadute – fisiche e metaforiche – fino all’ultima, quella irreversibile.
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