Con l’approssimarsi della fine dell’anno solare sono soliti formarsi nella mente delle persone, insieme ai bilanci dell’anno che si conclude, i propositi futuri per quello che viene. In questo meccanismo, così tanto diffuso da riguardare tutti, quasi come un passaggio obbligato, è implicita una particolare natura dell’inizio.
Vale a dire, l’inizio inteso come rinnovamento e innovazione. L’idea di dare un “nuovo corso” alla propria vita, assumendo abitudini nuove e lasciandone altre, ha a che fare con il «progettare», che è la modalità del nostro esistere in quanto donne e uomini.
La facoltà di iniziare qualcosa di nuovo ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare.
Hannah Arendt, Vita Activa
L’inizio come progettare
Il fatto che noi, nella nostra vita, siamo «progetti gettati» che, di volta in volta, gettano progetti per vivere e farsi strada nel mondo, fino alla morte, lo mise in chiaro Martin Heidegger in Essere e Tempo (1927). Ciò che rimase un po’ oscuro in quell’opera, forse, è la modalità con cui parte del processo di progettarsi nell’esistenza è dovuto alla trascendenza di sé, che ci fa essere ogni volta superatori di noi stessi, e, quindi, sperimentatori di vita che facciamo nostra andando oltre noi stessi.
Questo modo di oltrepassarci ha a che fare con il rinnovarsi e il mettersi in gioco di nuovo, ogni volta innovandosi, cioè rendendosi nuovamente disposti a «progettare oltre» qualcosa che è di là da venire, proprio mentre continuiamo ad andare oltre ciò che siamo.
Ciò vuol dire che quel che siamo è sempre coloro che siamo già, mentre eravamo impegnati a progettare ciò che saremo. In questo modo di vivere, che è il nostro, l’«inizio» gioca un ruolo determinante. Perché, se noi siamo ciò che siamo stati dopo che siamo andati oltre, mentre progettiamo ciò che saremo, diventiamo ciò che stiamo iniziando. E quindi nell’inizio c’è un crocevia dei tre piani temporali: «iniziamo» a progettare ciò che saremo, e così «iniziamo» ad essere andando oltre noi stessi, e quindi saremo ciò che abbiamo iniziato.
L’inizio, nelle nostre vite, è retrodatato rispetto alla sua realizzazione, che è in fieri, ma si realizza sempre in ritardo in quando è sempre “in mezzo” al processo del progettare in cui noi ci muoviamo esistendo. La stessa parola tedesca per inizio, Anfang, rimanda al gesto dell’afferrare qualcosa, nel senso heideggeriano, afferrare sé stessi, prendersi nel progettare; cioè, affiorare in quanto noi stessi nel corso della nostra vita.
Poiché progettiamo di continuo e poiché per farlo iniziamo e otteniamo noi stessi iniziando, emergendo in ciò che di volta in volta siamo, è coerente – in relazione all’essere umano – parlare di diversi inizi tanti quanti sono i progetti, e tanti quante sono le fasi di un progetto. Vale a dire, tanti quanti sono i nostri presenti, al plurale. Noi siamo veramente solo nell’inizio, iniziando, e quindi sempre inizianti. Per questo la nostra esistenza è punteggiata di “inizi”; perché stiamo al mondo come iniziatori del nuovo.
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Ora, il quadro appena delineato non è solo il risultato di una riflessione, ma è la ricostruzione di come stanno le cose nella condizione esistenziale umana, attraverso la riflessione. Se guardiamo, invece, la natura, essa cosa fa? Muta e cresce continuamente, eppure all’apparenza è sempre la stessa, cioè si rinnova ri-iniziando ciclicamente sé stessa.
Un singolo individuo è sé stesso per tutta la vita, ma inizia a fare una stessa operazione molte volte nell’arco della propria vita, e anche di una sola giornata. In questo senso Heidegger può evidenziare il fatto che «il principiamento è volta per volta unico in ciascun principio» (Sul Principio, p. 14)
L’inizio come principio e ripetizione
La nozione filosofica di «inizio» non ha un significato univoco, ma duale. Una pur breve e superficiale rassegna della filosofia antica in merito può bastare a mostrare la duplice natura dell’«inizio».
Fin dall’antichità arcaica, poeti come Esiodo, e poi i filosofi – non a caso coloro i quali riconosciamo come gli iniziatori del filosofare – si sono interrogati sull’inizio. Cioè hanno ricercato l’arché, il «principio primo» che ha dato inizio, e che quindi governa, l’essere nel suo complesso (che esso sia l’acqua, l’aria, il fuoco, l’amore, il numero, etc).
Il pensiero “archeologico” è la ricerca del senso e della verità dell’essere, cioè, scoprendo il principio che ha dato inizio a tutto, scopriremmo anche tale inizio, e quindi il senso e il modo per i quali qualcosa come l’essere del tutto è iniziato. Questi “primi” filosofi, ovvero coloro che per primi hanno posto un oggetto specifico per il pensiero – l’arché, il principio iniziante – ricercavano un principio che fosse coerentemente riconoscibile come ciò in base a cui si originò questo mondo. In virtù di che cosa ebbe inizio l’«inizio».
In seguito altri filosofi hanno parlato di cicli cosmici (Empedocle e poi i primi filosofi stoici) che starebbero alla base delle nozioni cristianizzate di apocatastasi e di palingenesi [NOTA: Nozione e termine coniato da Origene di Alessandria. La questione del rapporto con lo Stoicismo è complessa e specifica, cfr. De princiipis II, 3, 4; Contro Celso IV, 67-68 – V, 20.]. Sebbene le parole siano complicate e tecniche, e le dottrine cui fanno capo siano molto complesse, il loro significato non è tecnico e non è astratto. Sono termini di dottrine filosofiche, cioè segni di conquiste teoriche dell’umanità, rispetto alla storia della comprensione del mondo nel suo costante e innegabile iniziare e rinnovarsi continuamente.
Queste dottrine fanno capo al ciclo della riproduzione naturale, in termini di riferimento empirico oggettivo. In questi filosofi l’inizio veniva pensato come molteplice e ripetitivo, per cui, dopo una rottura momentanea del flusso, si ricostituisce l’originaria situazione di stabilità ordinata. Questi filosofi capirono che la stabilità dell’essere è garantita non dall’eternità del mondo, o da un arché, ma dalla ripetizione dell’inizio in base alla circolarità di aggregazione e disgregazione cosmica.
Una scoperta che ha avuto talmente tanta fortuna nella storia della scienza che è pregante nella attuale conoscenza umana riguardo l’origine dell’Universo in quanto processo costituito dal nesso causale di «eventi» e «catastrofe» [NOTA E. Morin, La natura della natura pp. 47; 94-95]. Un’altra nozione antichissima, quella di catastrofe, che giunge, alla filosofia, probabilmente dall’evento di deflagrazione cosmica postulato dalla fisica stoica, e poi introdotta come termine tecnico dottrinale nell’interpretazione gnostica della Genesi.
Nella primigenia antichità, quindi, si è diffusa l’idea che con «inizio» si debba intendere la «provenienza prima» di qualcosa, come del mondo o della propria vita. In epoca ellenistica si osserva, invece, un cambiamento teorico rispetto al modo di concepire l’inizio.
Espressioni quali “è così fin dall’inizio” e “inizio a studiare” non hanno, in effetti, lo stesso significato. La prima intende l’inizio come qualcosa che non può essere modificato, l’inizio di tutto o di qualcosa che è iniziato a un certo punto per la prima volta in assoluto in virtù di un principio. La seconda espressione invece si riferisce all’inizio come ad un momento individuabile, che viene persino deciso, e che pur essendo di per sé uno, non è unico e irripetibile.
L’inizio in assoluto non si può cambiare, né con la prassi né con la teoria, mentre l’inizio che si stabilisce, si decide, lo si può interrompe e replicare.
La duplice natura dell’inizio
Per questo il filosofo francese Jean-Luc Nancy ha potuto indicare uno dei due significati di inizio, diciamo, quello relativo, affermando che «origine significa non qualcosa da cui proverebbe il mondo, ma la venuta, ogni volta una, di ogni presenza del mondo» (Nancy, Essere singolare plurale, p. 24), e dal canto suo Heidegger ribadisce l’altro significato di inizio, il primo inizio: «e il primo è quello per la prima volta dal quale prende le mosse ogni essenziazione dell’essere. Il principio che è per la prima volta è “una volta soltanto”; esso è nel contempo “di una volta” e “unico”» (Heidegger, Sul Principio, p. 12)
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Ci sembra assurdo pensare che l’inizio del mondo sia replicabile (anche se, come abbiamo visto, è stato sostenuto), ma non fa nessuna difficoltà ammettere che se io inizio a fare il pranzo o una qualsiasi altra cosa, non posso fermarmi e di nuovo ricominciare, ovvero, ri-iniziare a farla. L’inizio di cui facciamo esperienza è replicabile e non intoccabile, non è cioè stabilito una volta per tutte come unico, immodificabile e irriproducibile. Possiamo metterci a contare il tempo all’infinito, ma non lo facciamo, persino per il passaggio da un anno ad un altro abbiamo bisogno di stabilire un inizio convenzionale.
La convenzionalità dell’inizio dipende dal nostro libero arbitrio, vale a dire dalla possibilità che abbiamo di sceglierlo, di fissarlo, e di ripeterlo. Questa possibilità è solo nostra e dipende da un accordo intimo che noi abbiamo con il rapporto che attribuiamo alla natura con l’inizio. Perché, infatti, l’inizio non è un concetto che ci siamo inventati, e nemmeno immediatamente qualcosa di cui abbiamo bisogno per capire i processi fisici e scandire temporalmente le nostre azioni. Invece è un dato che esiste nella natura delle cose.
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Un certo tipo di cose, quelle sensibili e materiali, iniziano e finiscono, è la natura che ce lo dice, non noi che lo pensiamo per conto nostro. L’inizio è, quindi, un principio dell’essere delle cose, cioè della natura. Per questo, rovesciando la prospettiva dei “primi” filosofi, non c’è nessuna contraddizione nel constatare che tipico della natura del mondo è sempre iniziare di nuovo [NOTA F. Schelling, Esposizione del processo della natura, 1843-44]. Il «primo inizio», o «principio», è nient’altro che l’inizio di innumerevoli inizi nei quali l’essere nel suo complesso, di volta in volta e costantemente, si dispone e si organizza. Per questo, ogni anno a fine dicembre, possiamo augurarci «buona fine e buon principio».
Ciò che Heidegger ci dice è che l’inizio non è mai lo stesso, perché noi siamo sempre gettati in avanti, ci trascendiamo continuamente, e quindi iniziare nuovamente, ovvero il ri-iniziare, non può essere lo stesso inizio da cui il ri-iniziare riprende. Iniziare a leggere un libro e poi ri-inziare a leggerlo prospetta una ripetizione dell’inizio che non è uguale ma differente, e quindi due inizi diversi che, però, sono entrambi iniziare una medesima cosa.
Ogni inizio di nuovo anno non è lo stesso inizio del precedente anno nuovo, ma ha lo stesso significato per noi. Così iniziare un anno nuovo vuol dire reiterare l’iniziare una medesima cosa, ma di anno in anno in modo differente, di modo che ognuno dei molteplici inizi è, per noi, veramente un nuovo inizio. La stessa cosa succede alla natura con la rinascita della primavera, che è sempre ri-iniziante, ciclicamente, senza che uno stesso inizio inteso come primo e unico, sia distinguibile.
Conclusioni
L’inizio, quindi, si dice in molti modi, e per ogni modo, molte volte. È al contempo uno e plurale. Per questo utilizziamo l’«inizio» per scandire la nostra vita, le nostre azioni, e il nostro tempo. Fare propositi per il nuovo inizio di un nuovo anno solare è una prassi rituale che riguarda la speranza e l’entusiasmo ideale dato dal raggiungimento di nuovi obiettivi, più che un piano programmatico da seguire scrupolosamente. Lo stesso succede con l’altro momento di transizione del ri-iniziare: la fine dell’estate.
Ci serviamo di un «inizio» posto per convenzione al fine di promuovere «iniziative» individuali, cioè nuovi «progetti». Lo facciamo perché l’inizio, in base alla sua duplice natura, ci dà un senso di libertà, e al contempo di rinnovamento. Proprio perché non è vincolato all’esclusività dell’esser posto – o dato – una volta per tutte. Sebbene possiamo gestirlo e dargli noi il senso che vogliamo nella nostra vita segnata dall’orizzonte della finitezza, esso non perde il suo potere di «punto di svolta» nella nostra esistenza, nella quale possiamo solo reiterare l’iniziare di nuove attività o il ri-inizare le solite. Perché siamo nati per cominciare.
Dopo ogni «crisi» e qualsiasi genere di «disastro» naturale e non, abbiamo sempre ricominciato. Iniziare è nella nostra natura, è il nostro destino di specie in quanto parti di un tutto che si rinnova. È quindi proprio nel modo di essere dell’inizio, e nel rapporto che abbiamo con esso, che costruiamo la nostra libertà e la nostra resistenza al cambiamento e alla catastrofe.
Il punto sul quale riflettere è la duplice veste dell’esistenza espressa dall’inizio, che abbiamo mostrato. L’inizio di cui facciamo esperienza non è solo l’atto fondativo di una esistenza. Ogni cominciamento di qualcosa è un inizio, non solo il primo. L’essenza dell’inizio è sia l’unicità irreversibile e irripetibile dell’emergere (io sono nato) sia la ripetizione, la non esclusività del darsi una volta per tutte nell’essere (l’anno nuovo inizia).
Da entrambi i modi, risulta chiaro che non possiamo per natura liberarci dell’essere: esso è indistruttibile – in virtù dell’inizio. La sua duplice natura ci insegna molto sulle crisi e sulle catastrofi, e ci fa ritrovare un senso di libertà e di legame con l’essere, che oggi può apparire labile.
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