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Imputabilità e tossicodipendenza

Il doppio binario della legge: quando la giustizia si incrocia con la scienza per distinguere tra punizione e cura nelle valutazioni d'imputabilità mentale nella tossicodipendenza.

4 minuti di lettura

Il concetto di imputabilità

Il “sistema del doppio binario” previsto dal Codice penale agli articoli 88 e 89, nella sostanza, distingue i cittadini in due gruppi davanti alla legge: coloro che sono in grado di intendere e volere, e quindi vanno puniti qualora delinquano, e coloro che non lo sono, e quindi vanno aiutati.

I periti a cui la questione è in parte rimandata devono quindi “tradurre” le loro conoscenze scientifiche e applicarle alla questione giuridica dell’imputabilità, per cui la domanda a cui devono rispondere potrebbe essere formulata così: all’interno dell’ampia categoria della “malattia mentale”, dove si può porre un confine oltre al quale il malato che ne soffre non può più essere considerato responsabile per le proprie azioni? La risposta è complessa, non univoca e, come è facilmente intuibile, suscettibile di interpretazioni ideologiche.

Visione storica dell’imputabilità in soggetti tossicodipendenti

La materia diventa ancora più complessa se si considerano le sostanze psicotrope. Gli articoli 94 e 95 del Codice penale distinguono due condizioni in relazione al consumo di alcol e altre sostanze: l’intossicazione abituale, che non esclude l’imputabilità ma anzi aumenta le pene previste, e l’intossicazione cronica, paragonabile invece ad un vizio di mente e quindi non imputabile. 

Occorre ricordare che l’impianto dell’attuale Codice penale è lo stesso dal 1930 e la giustificazione di questi articoli si trova nel pensiero scientifico di allora. Fino a non molto tempo fa, infatti, la comunità scientifica distingueva due entità in merito all’assunzione di sostanze psicotrope: l’abuso e la dipendenza.

L’abuso era definito dall’assunzione della sostanza che in qualche modo non comprometteva il funzionamento del soggetto; l’idea era che la persona mantenesse un certo livello di controllo sull’assunzione della sostanza. La dipendenza invece era definita dalla completa abolizione di questo controllo e il conseguente danneggiamento della persona su tutti i piani di funzionamento (cerebrale, emotivo, sociale, interpersonale, lavorativo).

Dietro a questa distinzione si può forse vedere un pregiudizio che per tempo ha gravato sulle spalle dei pazienti tossicodipendenti e che, sebbene forse in misura minore, continua a esistere: che il tossicodipendente sia un “vizioso” e che con un certo grado di “forza di volontà” potrebbe smettere (fase dell’abuso). Solo in fasi molto avanzate, dopo anni e anni di assunzione smodata, perderebbe completamente il controllo (fase della dipendenza).

Da qui l’idea dietro al Codice penale: punire, anzi inasprire le pene contro coloro che sono ancora in quel periodo in cui, se si impegnassero, potrebbero smettere, e far uscire dal sistema come malati, quindi non imputabili, colore che si trovano già in fase terminale.

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Teorie contemporanee sui problemi di addiction

Questa concezione dei problemi legati all’uso di sostanze psicotrope è stata ampiamente superata, quanto meno nella comunità scientifica. Il nuovo clima si vede anche e soprattutto dalle parole usate: scomparsi i vecchi termini di abuso e dipendenza, oggi si parla più genericamente di “disturbo da uso di sostanze”, addiction per gli anglofili.

La valutazione della gravità si basa soprattutto sulla compromissione funzionale della persona, non sulle quantità di sostanza assunte o sul grado di controllo che ne ha il soggetto. Perde anche di importanza l’astinenza come motore per spiegare la continua assunzione, che se continua ad avere importanza per l’eroina e gli oppiacei ne ha molta meno per la cocaina, la ketamina e le altre sostanze. Oggi si spiega l’assunzione sulla base del craving, l’intenso desiderio che la sostanza induce, e della disregolazione emotiva, l’assunzione della sostanza finalizzata e regolare e modulare stati emotivi e affettivi altrimenti intollerabili.

Il nuovo panorama scientifico non è ancora filtrato nella giurisprudenza. Un tentativo di risolvere il problema della distinzione tra intossicazione abituale e cronica ha fatto ricorso al criterio temporale: cosa succede alla persona se rimane astinente per lungo tempo? Se i sintomi regrediscono, si parlerà di intossicazione abituale (quindi, ripetiamolo, la persona va punita con più severità), se persistono di intossicazione cronica (quindi la persona va aiutata).

Anche qui tuttavia le nuove conoscenze scientifiche non vengono in aiuto. Nelle gravi forme di addiction l’astinenza può indurre immediato sollievo per alcuni sintomi, non per altri. Molti tossicodipendenti raccontano bene questo fenomeno: passano più rapidamente i sintomi fisici della dipendenza, ma i sintomi psichici più fini impiegano più tempo. Il craving, talvolta, non passa mai. Quali sintomi vanno utilizzati, dunque, se si usa il criterio temporale? 

Un modello alternativo

Il problema, forse, non sta nei vari tentativi che si possono proporre per rispondere alla domanda avanzata dal Codice penale, quanto piuttosto nel modo in cui questa stessa è formulata. Si sta parlando infatti di una dicotomia netta e forzata che cozza molto con le conoscenze dell’attuale psichiatria, che infatti si sta aprendo sempre più ad una prospettiva dimensionale in cui si accetta che i limiti tra salute e malattia, nonché tra le varie forme di malattia, sono labili, fin troppo spesso frutto di una semplice convenzione.

In questo nuovo modello, a stabilire una diagnosi non è la presenza di un sintomo quanto piuttosto una valutazione complessiva del funzionamento della persona. A distinguere la tristezza dalla depressione, per fare un esempio comune, non è la presenza di un sintomo (il rimuginio, il ritiro sociale, i deliri depressivi o altro ancora, tutti abbastanza inconsistenti) quanto piuttosto se la persona sia in grado di lavorare, intrattenere relazioni intime e avere una visione complessivamente realistica di sé, della sua storia e delle sue prospettive.

In questo nuovo paradigma, una distinzione netta tra imputabilità e non imputabilità non è sostenibile, ma piuttosto si devono ammettere un’infinità di casi grigi intermedi. L’istituto della seminfermità introduce una sorta di via di mezzo tra le due, è vero, ma nella sostanza non risolve il problema. Si tratta, in effetti, di passare anche per il concetto di imputabilità da un approccio dicotomico ad uno dimensionale.

I modi sono ancora tutti da valutare, ma ad esempio si potrebbe ipotizzare  un nuovo sistema giuridico-forense in cui per ogni singolo caso ci si prende il tempo per una valutazione approfondita, magari attraverso un soggiorno temporaneo dell’imputato in strutture intermedie in cui sia presente un’equipe multidisciplinare apposita, in attesa di stabilire se debba transitare per il circuito penale standard o per quello delle misure di sicurezza. 

Un tale modello non è certo scevro di rischi, ma l’esperienza insegna che regole troppo rigide si adattano male a sistemi complessi. 

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Simone Giovannini

Classe 1992. Lavoro come psichiatra, spostandomi nel tempo tra varie città, anche se ultimamente mi sono stabilità in Toscana. Appassionato di psicoanalisi, psichiatria forense, pratiche meditative. Aspetto costantemente il momento giusto per iscrivermi a filosofia, ma sembra non voler arrivare

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