Premetto che se avessi conosciuto in anticipo la trama di Il verdetto, probabilmente domenica avrei trovato altro da fare, ma quando il mio amico si è presentato troppo in ritardo per una mostra al nostro appuntamento davanti al cinema Rialto, il faccione di Emma Thompson mi è sembrato rassicurante e indice di un’allegra qualità, stile Harry Potter in tribunale. Niente di più falso: Il verdetto, tratto dal racconto di Ian Mc Ewan La ballata di Adam Henry (acquista) è la vicenda giudiziaria di un ragazzo con la leucemia, che, da Testimone di Geova, rifiuta le trasfusioni di sangue che potrebbero salvargli la vita. Il cancro non è semplicemente accennato, non fa parte di una trascurabile cornice e non è nemmeno rappresentato in maniera poco realistica: il cancro è il protagonista assoluto dell’ultima fatica di Richard Eyre, che lo ritrae con la precisione e la puntualità che tanto mi terrorizza.
“La morte fa parte della vita” ha detto il mio amico vedendomi cominciare a tremare e singhiozzare poco dopo i titoli di testa. In effetti, il mio terrore del cancro non ha nulla di razionale, come non c’è nulla di razionale nell’accettare e apprezzare la raffigurazione della morte alla Tarantino, in maniera violenta, splatter, volgare e inopportuna, e non riuscire a pensare allo spegnersi lento di una malattia degenerativa senza sentirsi soffocare. O forse sì. Nonostante questo, il mio amico probabilmente ha ragione: la morte fa effettivamente parte della vita, come ne fanno parte tutte le storture e gli orrori di cui siamo testimoni semplicemente uscendo di casa. Si può fare poco, come non oncologi e non ricercatori, per debellare quella che è stata definita la malattia del secolo.
Anche se forse almeno dovremmo provarci, a fare quel poco. Non dovremmo mangiare la carne rossa o gli insaccati, non bisognerebbe fumare, fare jogging in città, masticare le chewing gum e sarebbe il caso di fare di tutto per vietare gli allevamenti intensivi, l’apertura di nuovi centri commerciali, l’uso di inceneritori. Il cancro origina da un accumulo di mutazioni, cioè di alterazioni dei geni che regolano la proliferazione e la sopravvivenza delle cellule, la loro adesione e la loro mobilità. Le scene di Il verdetto esplicitamente dedicate alla malattia sono letali per la loro fedeltà alla realtà: si sente il ronzio delle macchine per la flebo, l’intonaco di quel bianco straziante, si percepisce persino l’odore di disinfettante e di lesso degli ospedali. Domenica, se fossi stata minimamente informata riguardo la trama di Il verdetto, probabilmente avrei usato tutti i miei migliori argomenti per caldeggiare un qualsiasi altro film, mi sarei fatta andare bene persino una maratona di cinepanettoni.
Emma Thompson è Fiona Maye, un giudice britannico dalla razionalità brillante e puntigliosa, tanto abile e di successo nel suo lavoro quanto infelice nella vita privata. Un giorno, le viene sottoposto il caso di un ragazzo, minorenne per una manciata mesi, in bilico fra la vita e la morte. Adam Henry è infatti figlio di una comunità di Testimoni di Geova, per cui “il sangue è un dono di Dio e solo a Dio appartiene”. Le trasfusioni,minacciosa manifestazione di progresso scientifico, sono proibite dagli anziani della Sala del Regno, esoterico luogo di preghiera e raccolta di una setta i cui minori sono, per fortuna, ancora tutelati dalla legge. La legge britannica, che per i suoi diciassette anni e dieci mesi lo considera ancora un“bambino” e quindi incapace di prendere decisioni in autonomia, consegna il suo caso nelle mani esperte di Fiona Maye, che prima di emettere il verdetto decide di visitare il ragazzo in ospedale.
Rappresentare il cancro con la ricchezza di dettagli e la crudaprecisione di Richard Eyre è un’opera a cui spetta non solo riconoscimento, ma anche una certa dose di riconoscenza. Chi racconta il cancro, se non è un sadico visionario, in genere sa fin troppo bene di cosa sta parlando. Il pallore della morte incombente, il livore della bocca, i movimenti svogliati e flebili di chi fa una tale fatica a compierli che il minimo gesto è una conversazione essenziale, il dolore rappresentato e percepito della fine che avanza, spietata e inesorabile. Fionn Whitehead, il giovane soldato di Dunkirk, è un Adam Henry dallo sguardo guizzante e il suo respiro debole trafigge lo spettatore come una secchiata di catrame bollente in faccia. La morte è molto più di una semplice possibilità, per chi ha la leucemia, suggerisce la macchina da presa.
“Mi invitò a prendere la vita così come veniva, come l’erba cresce sugliargini” canticchiano i due protagonisti citando Keats, prima che Fiona sia costretta a tornare in tribunale, dove i genitori di Adam fanno di tutto per rendere l’ateismo di stato alla Enver Hohxa l’unica opzione religiosa accettabile. Adam è adulto, ripetono con le mani intrecciate in grembo e gli occhi bassi i signori Henry, è un ragazzo speciale e intelligente, è a lui che spetta la scelta sulla sua vita. Cosa significhi scelta in un contesto comunitario ristretto, dove chi disobbedisce alla norma viene disaggregato, la devianza viene punita con l’isolamento sociale, e la minaccia della dannazione eterna lampeggia feroce in direzione di un ragazzo di diciassette anni circondato da familiari bigotti e solitudine, non è dato saperlo. I versetti della Bibbia a cui si fa riferimento riguardano il sangue degli animali e naturalmente il testo sacro non parla di trasfusioni, impensabili per l’epoca in cui è stato scritto. Ma i Testimoni hanno deciso di interpretarlo alla lettera, un po’ come se i fan di Battisti si mettessero a obbedire all’enigmatico: “Non piangere salame dai capelli verde rame”.
La leucemia non è il solo cancro che perseguita Adam, sembrano suggerire gli eleganti avvocati dell’accusa, in una sorta di crudele rappresentazione di un conflitto di classe dove simpatizzare per gli esponenti working class tanto devoti a un Dio crudele da sacrificare il loro unico figlio, della cui esistenza le prove ci sono, non è proprio possibile, questa volta. La morte di un malato di leucemia è la morte lenta e orribile di ch iaffoga possedendo la lucida consapevolezza che la vita lo sta abbandonando. I polmoni si allagano lentamente, riempiendosi inesorabilmente di sangue. La scena in cui il medico di Adam spiega la necessità di procedere a cure ematiche mi fa stare così male che prendo in considerazione l’ipotesi di uscire dalla sala. Per fortuna ogni tanto la macchina di presa si sposta sulla vita di coppia di Stanley Tucci ed Emma Thompson, e per fortuna almeno uno dei due è un pelatone simpatico, o il mio pianto disperato spaventerebbe a morte il mio amico.
La vita sentimentale di Fiona è quella di una donna la cui carriera si rivela più interessante e impegnativa di quella del marito che ha bisogno di molta più attenzione che chi si trova ingarbugliato fra i confini di etica e morale riesce a fornire. Il tentativo di veicolare schemi di reciprocità con chi rivendica un’intimità coniugale fondata sul desiderio di una sola delle due parti e non sembra considerare il sesso matrimoniale un epifenomeno comunicativo, ma solo un diritto dello sposo sembrerebbe una perdita di tempo per una donna così intelligente, ma si sa: quando si tratta di sentimenti siamo tutti ciechi come talpe, svegli come i terrapiattisti e sordi come i fan di Alan Sorrenti. Stanley Tucci interpreta un marito in crisi di mezza età, indeciso se cavalcare una Harley Davidson o una biondina per riempire i vuoti della sua vita amorosa. Spoiler: non vince la moto. Povera Fiona.
Alla fine del film non riesco più nemmeno a deglutire.Ilmio amico mi passa un braccio intorno alle spalle: “Che ne dici, ci prendiamoun tè caldo?” Gli sorrido cercando di fermare i lacrimoni: “Meglio un kebab”.
Fonte immagine in copertina: Newsfilm.it