Capita che sia difficile parlare del presente, che la storia, le contingenze, impediscano di farlo. Perché in effetti del presente è sempre delicato parlarne, così come lo è alzare la voce contro chi ci sta davanti – è delicato e ci vuole coraggio. Capita anche che, conseguentemente, per non ridursi ad ammutolire, si trovino strade indirette per far ciò che i tempi non rendono possibile fare. Invece di coinvolgere il presente dritto per dritto, si passa per la porta del passato (o del futuro): si usano i tempi andati (o da venire) per parlare, criticare, accusare – questa volta sì – il presente. Così, ad esempio, Manzoni scriveva i Promessi Sposi, Eco Il Nome della Rosa, Orwell 1984, e poi i vari Huxley, Bradbury. Tra questi c’è anche Tvedan Todorov con La conquista dell’America che è il libro, ormai di 30 anni fa, che ci interessa in questo articolo.
Il problema dell’altro
La conquista dell’America, tradotto dal francese per Einaudi, consta di trecento pagine interamente dedicate a quell’apocalisse culturale (per loro, gli indiani, non per noi) che fu la conquista dell’America, incominciata nei giorni del lontano ottobre 1492. La data del 1492 ce la ricordiamo tutti dai banchi di scuola, come ci ricordiamo Cristoforo Colombo, meraviglioso paradigma della curiosità, il novello Ulisse che inaugurò un’epoca in forza di un errore di calcolo. Ma più che essere un saggio di storia, La conquista dell’America ha carattere filosofico prima di tutto, e poi sociologico. La posta in gioco non è tanto come, perché, quando Colombo mise piede in America, o come, perché, quando una buona fetta della civiltà amerinda scomparve; no, in ballo, nel testo di Todorov, c’è piuttosto la questione dell’alterità, del diverso, o, come recita il sottotitolo, Il problema dell’altro. E anche se non siete dei ferventi hegeliani, sapete che quando si parla di alterità, soprattutto quanto l’alterità è calata nella storia, le cose si fanno complicate. Cosa vuol dire che l’alterità è calata nella storia? Quando due o più popoli, culture, mondi si incontrano faccia a faccia, esplode il problema dell’altro, il problema che riguarda il come guardare all’altro, ecco – tutto ciò.
Il Diverso
Non si tratta di scaramucce, evidentemente; e Todorov, con un fiuto che precorre i tempi di più di 30 anni, aveva capito che mettere a tema la questione dell’incontro del diverso, e cioè: il Diverso, significava con molto realismo cercare un modello interpretativo per la realtà, per i tempi presenti appunto. Perché se già la ruvida chiacchierata con i vicini di casa riesce difficile – semplicemente perché voi pensate A e loro pensano B, ecco, immaginatevi cosa può voler dire, per entrambe le parti, venire in contatto con il radicalmente altro, con il vicino di casa che la pensa B moltiplicato all’ennesima potenza. Immaginatevelo. La differenza è così radicale che è troppo lontana per essere afferrata. E troppo lontana, questa differenza, lo era per Cristoforo Colombo, e poi per Cortés. Ma lo era anche per Moctezuma, per gli indios di Città del Messico e dello Yucatan. L’incontro era nato morto.
Colombo, Moctezuma, Cortés, gli Spagnoli
Nel libro di Todorov si tratta solo in parte di accusare e rendere conto moralmente di uno sterminio, anzi di un genocidio (che, a quanto pare, detiene il record per il numero di vittime mietute: più o meno 70 milioni gli indiani morti nel giro di un secolo; cfr. p. 162 del testo); rilevante è piuttosto il perché di questo conflitto, di questa mancata comprensione. Colombo guardava agli indiani come un collezionista che guarda alle proprie farfalle imbalsamate: in un orgasmo di meraviglia e stupore; ma pur sempre meraviglia e stupore suscitate da oggetti. Moctezuma vedeva nei conquistadores degli déi venuti da mondi lontani, una sorta di nemesi storica pronta a chiudere la loro epoca. Cortés, il più furbo di tutti, ed il più sorprendentemente vicino ad una comprensione dell’altro, trovava negli indiani materia preziosa per i propri commerci, attrazioni esotiche da riportare in patria e, soprattutto, guide sicure per trovare il tanto agognato oro luccicante. Gli Spagnoli guardavano all’America come ad una terra di barbarie e mostruosità, ma da sfruttare per le ricchezze materiali. Alla cristianizzazione coatta, violenta, vomitevole si accompagna l’altrettanto coatta, violenta e vomitevole ricerca di pietre preziose da riportare a casa per rimpinguare le casse di Stato o le tasche dei sovrani.
Questo è ciò che ci racconta Todorov. Ed è un libro che va letto, per non dimenticare, per aver bene chiaro «quel che può accadere se non si riesce a scoprire l’altro»; si badi: scoperto, non conquistato (come recita il titolo del testo): «perché l’altro deve essere scoperto», non assimilato, conservato come altro ma nell’eguaglianza. In fondo uomini lo siamo tutti; ma uomini lo siamo anche nella differenza, ed è la differenza che Todorov chiede a tutti noi di scoprire e preservare, sempre. Altrimenti il dialogo fallisce.
«A partire da quell’epoca, e per circa trecentocinquanta anni, l’Europa occidentale ha cercato di assimilare l’altro, di far scomparire l’alterità esteriore, e in gran parte ci è riuscita. Il suo modo di vita e i suoi valori si sono diffusi in tutto il mondo; come voleva Colombo, i colonizzati hanno adottato le nostre usanze e si sono vestiti»
Così in effetti è fallito. Colombo teneva in mano il Vangelo quando scoprì l’America, e probabilmente anche Cortés quando passava a fil di spada qualche povero indiano. Non si devono abbandonare i Vangeli, cioè abbandonare noi stessi e la nostra civiltà – perché, en passant, la conquista dell’America è il frutto più conseguente dell’insegnamento biblico: «Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra”». Non è tanto questo. Ma per scoprire l’Altro, ogni vangelo va momentaneamente messo da parte, per cercare la diversità che abita in chi ci sta di fronte; se ciò non avviene, si resta ciechi, e si finisce come Cortés, o peggio, come lo storico spagnolo Gonzalo de Oviedo y Valdés, che si domandava «chi vorrà mai negare che usare la polvere da sparo contro i pagani è come offrire incenso a Nostro Signore?».