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© Masiar Pasquali

“Il teatro comico” di Goldoni nella regia di Latini: caleidoscopio estetico fra Arlecchini e precarietà

5 minuti di lettura

Spesso sui banchi di scuola impariamo facili equazioni che appiattiscono però la complessità dei fenomeni letterari, e così alla parola “metateatro” associamo subito il nome di Luigi Pirandello. In realtà si tratta di un’etichetta-ombrello molto vasta e ben più antica. Si tende a dimenticare ad esempio che un’altra opera fondamentale della nostra letteratura ruota interamente attorno a un fulcro metateatrale, cioè personaggi-attori ritratti nel momento delle prove di una commedia. Si tratta appunto de Il teatro comico di Carlo Goldoni, scritta nel 1750 e “manifesto” della sua riforma (ma assai poco rappresentata): invece di stilare in un trattato le proprie idee rivoluzionarie, l’autore sceglie il genere letterario che gli è più familiare, cioè il teatro stesso, e illustra squarci di vita personale degli attori, rivalità, fatiche, dubbi, ripensamenti alla base del fare teatro. Gli imperativi di Goldoni, anche in reazione al vuoto del Barocco, sono «il semplice e il naturale, il vero e la moralità». Al centro delle discussioni fra capocomico e compagnia c’è dunque il come, cioè ruoli, repertorio, gusti del pubblico: la fissità dei tipi enfatizzata dalle maschere, i lazzi e i prevedibili meccanismi da farsa, pure apprezzati dal pubblico, vanno gradualmente sostituiti da un teatro più attento al verisimile e alla psicologia dei personaggi.

Goldoni come pre-testo

Grande era l’attesa per questa messinscena ad opera di Roberto Latini, regista-attore di grande sensibilità che ha dato vita a una creazione grandiosa, un distillato di forte impegno e notevole densità. Nelle mani di Latini, il testo di Goldoni è un pre-testo, in diversi sensi. «Noi teatranti italiani nasciamo tutti da lui», amava ripetere Giorgio Strehler, sottolineando il necessario debito di riconoscenza verso il Maestro del Settecento veneziano. E infatti i suoi allestimenti sono passati alla storia, primo fra tutti l’Arlecchino servitore di due padroni, che per decenni ha viaggiato in tutto il mondo con grande successo. Tornare dunque a Goldoni e alla sua opera-manifesto significa rendere omaggio anche al Piccolo Teatro e a Strehler.

© Masiar Pasquali

Latini propone un’immersione nell’immaginario per riscoprire le tracce goldoniane e più in generale le nostre memorie teatrali, potenziando così il livello di specularità metateatrali e il mosaico intertestuale. Se Goldoni impreziosisce la commedia con citazioni da Aristotele, Orazio, Tasso e Metastasio, il caleidoscopio di Latini comprende anche citazioni dalle regie di Strehler (il busto di Arlecchino, la voce off di Ariel-Giulia Lazzarini dalla Tempesta), riferimenti alla drammaturgia europea (La classe morta di Kantor e l’assurdo di Beckett), fino agli esperimenti di Fo (il lazzo della mosca). Inoltre, gli intarsi musicali evocativi sono a cura di Gianluca Misiti, mentre Max Mugnai crea suggestioni pittoriche (Picasso e cubisti) grazie alla tessitura di luci, capaci di «aprire varchi spazio-temporali».

Quindi Goldoni è l’occasione perché il teatro faccia mostra di sé e dei suoi mezzi espressivi, attraverso l’esibizione di lampi memoriali, studiatissima dal punto di vista estetico. Anche la recitazione perciò tende a sfilacciarsi, con tratti caricaturali e cartooneschi (soprattutto con la maschera), giochi di braccia, scambi di ruoli, unità di personaggi che si sfrangiano in coralità di voci o viceversa. La volontà di ricerca si riconosce soprattutto nei giochi sonori di puntellature di voce e dissonanze fra parola e gesto, che mirano a spaesamenti e cortocircuiti: le parole «of-ferire» o «soc-correre», sezionate dalla pausa, si rovesciano in altri sensi, che il gesto va a enfatizzare. È come se Latini volesse “sbucciare” la scorza del testo goldoniano per far esplodere i significanti, in un’operazione che riesce a contemperare la fedeltà all’originale e la sua autopsia.

Siamo tutti sulla stessa barca…

Un’immagine fra tutte racconta molto delle intenzioni di Latini. Nella prima parte la luce livida illumina una pedana basculante, pericolosamente in bilico. Solo movimenti misurati e coordinati permettono ai personaggi di restare in piedi. L’immagine è suggestiva, spesso accompagnata da suoni che rinviano al mare (scricchiolii, tensione di corde): forse una gondola veneziana, ma anche rimando a quella “barca dei commedianti” su cui il tredicenne Goldoni si imbarcò insieme a una sgangherata compagnia di attori, da Rimini a Chioggia, in un’avventura-viaggio di formazione e di iniziazione al teatro. Di sicuro è segno di un mondo precario, che scivola verso l’ignoto. Forse immagine politica (la nave dello Stato in balìa della tempesta dei tempi), spettro inquietante della condizione umana (Zattera di Medusa) o specchio della condizione teatrale di ieri e di oggi?

© Masiar Pasquali

Uccidere Arlecchino, e poi? Vedere

Sul proscenio c’è un’enorme statua di Arlecchino. Monumento-totem, nume tutelare? Nulla nel teatro di Latini è stabile. E infatti ecco che all’improvviso questo Arlecchino si piega ad angolo retto, diventa quasi la sbarra di un passaggio a livello, a segnalare una sorta di sosta-pedaggio o forse un ostacolo da valicare. Arlecchino è lo snodo del discorso ermeneutico di Latini, soprattutto nella seconda parte. Il personaggio infatti si scompone, tutti indossano il suo vestito a losanghe colorate, una tramatura che, proiettata, si espande a fagocitare e intrappolare la scena intera. Dunque, un Arlecchino “diffuso” e disperso, ma anche mutilato: la scena infatti è disseminata di gambe, braccia, torso, maschera. Sono reliquie da ricomporre o destinate a rimanere brandelli di una necessaria “macelleria” del tipo fisso? Ci accorgiamo che il nome stesso è pronunciato come “Arlecchi-NO”. Rifiuto dello stereotipo, della caricaturale marionetta, del fantasma di un passato teatrale a cui ci lega però la nostalgia? Che cosa rimane nel nostro tempo post-Arlecchino? La risposta forse non c’è, in questa labirintica proposta di Latini, che mira a sviare più che a guidare.

Un filo rosso sembra rintracciabile nei leit motiv. Goldoni mette in bocca a un personaggio versi barocchi di una Didone bernesca, un dramma di mediocre qualità. Eppure proprio qui si appunta l’attenzione di Latini, a metà fra il serio e l’ironico. «E solo Amor di queste luci tenere / vedi», piange la regina abbandonata: Enea, amante perduto, è l’unico amore dei suoi occhi (“luci tenere”). Ma Latini procede all’amputazione del verso: le parole, frammentate, fuori contesto, amplificate, si trasformano in balbettio e si rovesciano in nuovi sensi. Il capocomico Orazio (Latini), circondato dal silenzio, sotto il fascio dei riflettori, pronuncia «queste luci tenere»: allude forse alla magia della luce scenica che tesse una sua simbologia drammaturgica? «E solo Amor» diventa un refrain, forse in risposta alle nostre domande: il teatro, questo stesso concentrato di abilità e riflessione, è “solo Amor”. E infine: «Vedi». È un invito allo spettatore o una minaccia, questa di Orazio, mentre agita la pistola, prima verso di sé e poi verso il pubblico? Sì, uccidere: le maschere, il perbenismo, l’eccesso di realismo e la presunzione di dominare la realtà. Ciò che resta è “vedere”. E, con altrettanta forza, anche se siamo consapevoli di non poter ricevere risposta, amare il teatro.

Corrono in monopattino, cadono, si dondolano sulla pedana o volano sospesi, si affacciano dagli squarci di un sipario, si celano dietro le maschere, danzano sotto una pioggia di coriandoli d’argento o con gli arti mutilati di Arlecchino, frizzanti nei momenti di comicità e solenni nelle plumbee atmosfere di riflessione. E ancora, piegano la voce a trilli, profondità cavernose, risate esili, coloriture del dialetto veneziano o napoletano. In particolare, versatili e impegnati in diversi ruoli, sono Elena Bucci (Rosaura/Placida/Beatrice) e Marco Sgrosso, un viscido e vecchio Pantalone che si sdoppia poi in una Eleonora esilarante.

Quando gli otto straordinari interpreti escono per il saluto finale, il pubblico li accoglie con lunghi e calorosi applausi.

Il teatro comico 
di Carlo Goldoni
di Roberto Latini
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
fino al 25 marzo 2018, Piccolo Teatro, Milano

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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