Non è facile leggere Paolo Cognetti standosene in città. Si vive la cosa come una specie di straniamento, di abuso, come un esercizio di nostalgia provocato da pagine che raccontano luoghi sconosciuti ai più. Tra questi, ovviamente, la montagna, che è per così dire il fulcro delle narrazioni di Cognetti, nonché della sua vita.
Non è facile, dicevamo, perché ci si ritrova più spesso del previsto sorpresi dal desiderio di essere altrove. E la cosa è frustrante, ma al tempo stesso provoca in noi una sorta di scarica catartica, come un riaggiustamento della frattura ingenerata dalla lontananza dei luoghi raccontati da Cognetti.
Senza mai arrivare in cima
Questo strano meccanismo, questa sorta di prossimità-alterità, insieme nostalgica e rasserenante, la si sperimenta a pieno anche nell’ultimo suo libro, e forse soprattutto in questo. Edito per Einaudi Senza mai arrivare in cima racconta del viaggio di Cognetti in Himalaya, precisamente nella regione del Dolpo, in Nepal. Senza mai arrivare in cima è, diciamo, il resoconto di questa lunga passeggiata. Insomma, così:
In che cosa consisteva l’armonia che percepivo con chiarezza in quel paesaggio? Forse nelle proporzioni tra le montagne, o nei due fiumi che davanti a me si univano per diventare un fiume solo? Mi accorsi che la conca era una specie di meridiana: il fiume bianco segnava l’est, il fiume nero il sud, e il fiume che formavano insieme l’ovest. Dunque all’alba e al tramonto il sole si allineava alla valle,e nel percorso tracciava un giro intorno alla Montagna di Cristallo. Quanto alla montagna stessa, non sembrava diversa dalle altre: era un trapezio di roccia rossastra contro il cielo che si faceva più scuro.
Paesaggi
Senza mai arrivare in cima è il racconto dei paesaggi che corrono davanti ai suoi occhi, spesso lande desolate, grigi deserti ad altitudini inimmaginabili da noi europei, abitate da yak e nient’altro, piccoli villaggi quasi alieni dove incontriamo gli ultimi abitatori delle vette, che non conoscono – o ancora conoscono poco – il flusso del tempo.
Cognetti ci prende per mano, e ci accompagna per questi luoghi lontanissimi, non solo geograficamente, ma lontani da noi, così lontani da essere insieme fascinosi ed inquietanti. Laghi, montagne sacre, qualche pastore, animali.
Cognetti, racconta, non viaggia da solo, ma è accompagnato da due amici, Nicola e Remigio, ed insieme viaggiano in un gruppo condotto da esperti dei luoghi, delle vette del Dolpo, di allevatori di yak e mandrie di cavalli. Gli incontri sono sporadici, rari, e rari sono i paesi attraversati. Poi, di tanto in tanto, uno squarcio, meravigliosamente dipinto da Cognetti:
«Dopo un po’, nella valle che non saliva né scendeva due ragazzi a cavallo comparvero silenziosi come spiriti. Avevano i capelli lunghi, lisci, neri, fasce scarlatte sulla fronte, orecchini di corallo e turchese. Anche i cavalli erano addobbati da nappe d’oro, nastri colorati legati alle code, coperte ricamate sotto la sella. Sembravano andare o tornare da qualche cerimonia. Nel modo in cui cavalcavano c’era la naturalezza dei popoli nomadi, e non potevo immaginare un modo più giusto e armonioso per attraversare il deserto. Ci guardarono appena. Scivolarono via nella direzione opposta alla nostra, e li osservai allontanarsi finché non scomparvero tra le forme dell’altipiano»
Lo stile di Cognetti è morbido, elegante, fatto di un fraseggiare che accompagna il lettore dolcemente, senza svolte brusche o fuochi d’artificio, come un declivio montagnoso.
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Dietro alla sua penna si riconoscono i grandi della letteratura americana (Steinbeck? Fante? Carver? Hemingway?), ma nessuno di essi è in qualche modo dominante, ed anzi, la freschezza della sua prosa sta proprio qui, nello scivolare tra l’uno e l’altro senza troppo indulgervi, ed è per questo che l’autonomia stilistica delle pagine di Cognetti si rende particolarmente godibile.
Sovrabbondanza retorica
Uno degli scogli che la letteratura di viaggio deve in qualche modo aggirare è la sovrabbondanza retorica. Capita a tutti: ce ne andiamo in India, o in Patagonia, o in Siberia, e la lontananza di questi luoghi provoca in noi come uno scossone estraniante, che tentiamo di oggettivare, di rendere in forma razionale.
Il più delle volte lo si fa male, perché il rischio è di scadere in un sentimentalismo romantico che 1) non dice niente al lettore di ciò che chi scrive ha davanti agli occhi, e 2) spesso si trasforma in un esercizio, piuttosto sterile, di autocompiacimento.
Come consigliava Nabokov, è inutile per il lettore sovra interpretare la letteratura, come a cercare ogni volta un significato dietro al significato. Il rischio è tanto più reale, quanto più le terre visitate dai narratori sono già di per sé (cioè per noi) cariche di mistero, come se dovessero custodire tutti i segreti della nostra esistenza (e l’Oriente è, per eccellenza, carico di mistero).
La montagna è solo montagna
Ecco, questo, in Cognetti, non succede, mai. La montagna è montagna, punto. In Senza mai arrivare in cima noi, come dire, camminiamo con Cognetti, e vediamo ciò che lui vede, senza alcun tipo di alterazione impressionistica. Certo, lo spazio per i momenti introspettivi c’è; ma c’è senza che alteri l’equilibrio dell’insieme: corre come di straforo, sotterraneo, mascherato dai gesti, dai dialoghi scambiati con gli amici e con gli estranei, in una tazza di tè tibetano, preparato nel burro di yak.
E sorge spesso dal malessere fisico, dalla corporeità dell’esperienza, rendendosi perciò più vero e vicino a noi, come quando Cognetti, racconta, si ritrova ad affrontare con forti giramenti di testa dovuti all’altitudine (e ad una sua personale riluttanza all’altitudine) la discesa fino alla stazione dove avrebbe passato la notte con il gruppo. Dice Cognetti:
Qualcuno mi passò una scodella di zuppa ma appena l’annusai seppi che non la potevo mangiare. Presi una borraccia di tè bollente, tornai dentro al sacco a pelo con tutti i vestiti addosso e mi raggomitolai. Ma cosa ci faccio qui? Perché me ne sto a tremare a cinquemila metri, nient’altro che gelo e buio intorno, lo stomaco che si contorce? Perché invece non sono a casa mia con la donna che amo, la cena intavola, un po’ di musica, un letto caldo? Che cos’è questo maledetto richiamo della montagna?
Circumnavigare
Che cos’è questo maledetto richiamo della montagna? Non c’è risposta nel prosieguo della narrazione, come a suggerire che di risposte tra le pagine del libro non si può parlare, o forse che non se ne può parlare mai. Così i dubbi restano allusivi, abbozzati, come d’altronde la questione cruciale che si nasconde dietro il titolo del libro: Senza mai arrivare in cima.
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Sì, ma che senso ha «andare in montagna», con le parole bellissime che Cognetti metteva in bocca al Bruno di Le otto montagne – che senso ha andare in montagna se non per scalarla, se non per attaccarne la vetta? Nessuno, si dirà. Noi siamo abituati a concepire il traguardo come il punto più alto, e più è alta l’asticella più la dignità del salto ha valore.
Ma non è così, o meglio, abituarsi a guardare alle cose in maniera differente ci rende la vita più semplice e godibile. Non salire, ma aggirare la montagna; circumnavigare, percorrerne la circonferenza come tracciando un cerchio alla sua base: questo è pregare la montagna, e portarle onore, eliminando i rapporti d’alto e basso. Lo scriveva già Robert Pirsig ne Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta:
Le montagne si scalano in un equilibrio che oscilla tra inquietudine e sfinimento. Poi, quanto smetti di pensare alla meta, ogni passo non è soltanto un mezzo, ma un evento fine a se stesso. Questa foglia ha l’orlo frastagliato. Questa roccia è instabile.[…] Vivere soltanto in funzione di una meta futura è sciocco. È sui fianchi delle montagne, e non sulla cima, che si sviluppa la vita.
Autenticità
Ora stiamo sovra interpretando anche noi. Senza mai arrivare in cima è qualcosa in più e qualcosa in meno di un libro di viaggio, e non solo perché «la montagna conduce all’essenziale», come scrive Cognetti, ma perché costringe tutti noi, in maniera indiretta e mai forzata, a domandarci cosa sia l’essenziale, senza pretese di risposta, come scoprendo la virtù della lentezza.
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Tutta la forza di Senza mai arrivare in cima risiede nella parola che, noi crediamo, lo descrive, sintetizza e che lo colloca fra i libri di valore, e questa parola è: autenticità.
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