Dopo la crudezza disperata di Gomorra e l’allucinato Reality, Matteo Garrone torna nelle sale, e in concorso al Festival di Cannes, con Il racconto dei racconti, tratto dal Cunto de li cunti di Giambattista Basile. Questo Pentamerone napoletano, una raccolta di fiabe in cui predomina una tinta oscura, grottesca, anche “maledetta”, come scrisse a proposito Italo Calvino nel suo saggio Sulla Fiaba, si presta con forza alla resa cinematografica di Garrone, cui non mancano la visionarietà e il gusto estetico adatti a una simile impresa. Il capolavoro di Basile, sempre da Calvino definito “Shakespeare partenopeo”, è un coacervo di tragedia e commedia, di popolaresco e regale, con un costante sottofondo onirico a scandire i tempi della vita e della morte: il film che Garrone ne trae è da considerarsi fantasy solo se si opera con categorie ed etichette riduttive, poiché in realtà Il racconto dei Racconti va al di là del cinema di genere, parlando il linguaggio della fiaba e del fantastico, per esprimere concetti e riflessioni validi in ogni contesto.
Come, ad esempio, non vedere nella triste regina di Logtrellis (una Salma Hayek in grandissima forma), cui è negata la maternità, un’anticipazione di quelle madri pronte a qualsiasi espediente medico pur di dare alla luce un figlio? La nostra regina arriverà addirittura a mangiare il cuore di un drago, ucciso dal marito a costo della vita. Dall’incantesimo all’inseminazione artificiale, dalla magia alla scienza: la maternità è sempre stata un’idea fissa, un sogno che può trasformarsi in incubo. L’impossibilità di procreare ha spesso, fra l’altro, trovato terreno fertile nei racconti fantastici, si pensi alla Donna senz’ombra di Richard Strauss, su libretto di Hugo von Hoffmansthall, derivata a sua volta da fiabe de La mille e una notte e dai fratelli Grimm.
Matteo Garrone fonde immagini di elevato valore estetico e simbolico, fra scenari meravigliosi (nel senso seicentesco, barocco del termine) dalla Puglia alla Sicilia, dalla Toscana all’Abruzzo. A costruire gli spazi ci pensa anche una luce perfetta (fotografia di Peter Suschitzky), ora abbagliante e sferzante, ora tetra e ombrosa.
Se nell’episodio La regina è trattato il tema della maternità, La pulce è dedicato ad un particolare rapporto padre-figlia, in cui il primo, il re di Highills (Toby Jones) è preda di una ridicola ossessione per una pulce. A farne le spese è la giovane Viola (Bebe Cave), data in sposa a un orribile, violentissimo orco. Anche in questo caso la fiaba è più contemporanea che mai: l’incapacità di esercitare il ruolo genitoriale, il moltiplicarsi di passatempi futili e strampalati come è nel film quello della pulce, l’impossibilità del dialogo, sono tutte problematiche proprie anche della nostra epoca. Vi è persino, a rimarcare la ricchezza di rimandi e temi nella pellicola, un’interessante riflessione sulla morte dell’artista, e dunque dell’Arte: i saltimbanchi brutalmente uccisi dall’orco ricordano gli attori de I giganti della montagna, capolavoro estremo, fantasmagorico e conturbante di Luigi Pirandello, che vengono travolti da immani e brutali creature.
Terzo e ultimo episodio è Le due vecchie, in cui Vincent Cassel interpreta il re di Strongcliff, libertino audace dedito alle più sfrenate pratiche sessuali. Al centro dell’episodio vi sono due anziane sorelle, Imma (Shirley Henderson) e Dora (Hayley Carmichael per la Dora vecchia, Stacy Martin per quella ringiovanita): la seconda riuscirà a farsi sposare dal sovrano, dopo essere tornata alla giovinezza grazie all’incantesimo di una strega, suscitando così l’invidia della sorella, che per sfuggire alla vecchia si farà scorticare da un arrotino. Ma il finale non sarà amaro solo per Imma. Si tratta dell’episodio forse più forte e riuscito, anch’esso, naturalmente, in comunicazione inquietante con la società odierna: lo scorticamento di Imma equivale alla chirurgia plastica cui si sottopongono numerose donne per sottrarsi al disfacimento del corpo, incapaci di stare al passo con i canoni estetici imperanti, rappresentati dagli smodati appetiti sessuali del re di Strongcliff. La donna che non accetta lo scorrere del tempo e i suoi inevitabili segni giunge a fare scempio di sé, ad insultare la propria corporeità, sminuendola ad elemento di consumo senza accorgersi che essa è invece parte fondamentale della sua identità.
Con Il racconto dei racconti Matteo Garrone parla alla società contemporanea utilizzando un linguaggio metaforico, denso di suggestioni simboliche, dalla potentissima carica immaginifica: la tuta da palombaro con cui il re di Longtrellis si immerge sott’acqua somiglia a quella inventata da Leonardo da Vinci in uno dei suoi geniali progetti, l’allevamento della pulce ha un retrogusto circense, come di triste follia pagliaccesca, l’apparizione di Dora giovane, splendida, nel bosco, sospende il tempo della narrazione nel mito, circondandolo di un’aura ineffabile.
La maestria del cineasta romano, e la riuscita del suo ultimo film, sta nell’aver individuato una chiave fantastica, impensabile, per parlare del reale: le fiabe di Garrone, curate nei minimi dettagli (vanno citati gli stupendi costumi di Massimo Cantini Parrini), sono allo stesso tempo finzione e verisimiglianza, turbano lo spettatore con la loro verità feroce, non vogliono consolarlo con una dichiarazione di fantasia. La fantasia di Garrone serve, infatti, a sconvolgere, a reinventare un mondo cupo, teso in situazioni snervanti, a rappresentare in un teatro di visioni angosce e paure che sono eterne.
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