L’Articolo 21 della Costituzione italiana proclama: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Lo stesso sottolinea la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: «Chiunque ha il diritto alla libertà di opinione ed espressione; questo diritto include libertà a sostenere personali opinioni senza interferenze ed a cercare, ricevere, ed insegnare informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo informativo indipendentemente dal fatto che esso attraversi le frontiere».
I diritti e, prima ancora, i doveri, fanno parte del codice deontologico di ogni giornalista. Ogni Stato democratico ha l’obbligo di sostenere i mezzi che permettono di perpetuare questo diritto universale, ossia la libertà di esprimere un’opinione nel mantenimento della dignità dell’uomo, obbligo primo quello di non trasmettere notizie false, dissimili alla realtà o opportunamente inventate con lo scopo di dare cattiva informazione.
Una celebre poesia di Paul Eluard recita:
«Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome[…]
E in virtù d’una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamartiLibertà.»
World Press Freedom Index
Freedom House pubblica annualmente un rapporto che misura il grado di libertà civili e personali garantiti in ciascun paese. Obiettivo ultimo è sostenere l’espansione della libertà in tutto il mondo. Secondo le stime di Freedom House, nel 2017 solo 61 paesi su 158 erano completamente liberi. Tra i paesi con minore libertà di stampa, legata a doppio nodo alla quasi totale assenza di libertà civili e personali, quelli del Medio Oriente (Arabia Saudita, Siria, Afghanistan) e tutti quelli a regimi dittatoriali.
Tra i paesi più liberi rientrano quelli scandinavi, come riporta anche il World Press Freedom Index del 2018, a seguire Svizzera, Giamaica, Belgio. L’Italia ha un quarantaseiesimo posto guadagnato a causa delle pressioni politiche e non subite dai giornalisti, dalle continue ripercussioni personali perpetuate dalla criminalità organizzata, e da un governo propenso all’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, che non si fa remore nel criticare apertamente l’operato dei giornalisti italiani.
Non sorprende l’ultimo posto assegnato alla Korea del Nord, dove vige un sistema dittatoriale dal 2012, dopo la salita al potere di Kim Jong-Un. Il governo detiene il controllo su tutti i mass media, come monitora la stampa straniera che, da pochi anni, riesce ad avere un marginalissimo accesso al Paese. Non sorprendono nemmeno gli ultimi posti assegnati, per la maggior parte, ai Paesi del Medio Oriente, celebri zone di guerra, dove risiedono regimi dittatoriali intransigenti, come la Siria, l’Arabia Saudita e l’Afghanistan.
Il rapporto annuale di Reporters without borders (for freedom of information) inoltre, comunica che, nel 2018, settantasette giornalisti e cinque assistenti sono stati uccisi. Nel 2017 registrava sessantadue giornalisti e dodici assistenti. Attualmente, 319 giornalisti e sedici assistenti sono tenuti prigionieri.
Il caso Khashoggi
La copertina di dicembre 2018 del Time titola: “The guardians and the war on truth”. L’articolo di Karl Vick non lascia spazio ai sentimentalismi, in apertura recita: «He told the world the truth about its brutality toward those who would speak out. And he was murdered for it.» Si riferisce a Jamal Khashoggi, il reporter ucciso in Arabia Saudita il 2 ottobre 2018. Scrittore e giornalista saudita, nel settembre 2017 aveva lasciato il suo paese d’origine in un auto esilio, dopo le continue censure forzate da parte del governo che, attraverso il consueto motus operandi,voleva ammutolire una voce controcorrente. Il 2 ottobre si è presentato in consolato per ottenere dei documenti relativi al suo matrimonio. Dal consolato non è mai uscito e, mentre il governo rilasciava dichiarazioni sulla sua non riscontrata salvezza, ennesimo esempio di insabbiamento, fonti anonime della polizia turca dichiaravano che l’uomo era stato ucciso all’interno del consolato.
Agli inizi di gennaio si è dato avvio al processo contro undici persone accusate di aver ucciso Jamal Khashoggi. L’intelligence parla di una partecipazione diretta del principe saudita, Mohammed bin Salman.
Khashoggi si era rifugiato negli Stati Uniti, dopo aver apertamente criticato le decisioni del principe saudita. Era una voce forte e prepotente che denunciava gli attacchi alla stampa, agli intellettuali e ai leader religiosi non concordi con la monarchia saudita. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in una chiara presa di posizione, ha deciso di non varare sanzioni contro l’Arabia Saudita, alleata degli USA da settantacinque anni, iniziata sotto la presidenza di D. Roosvelt, dove l’Arabia Saudita garantiva l’accesso al petrolio, in cambio della garanzia di sicurezza dei sauditi da parte degli statunitensi. Secondo il Presidente in carica, l’uccisione di Khashoggi non è una valida motivazione per compromettere gli eccellenti rapporti con il principe saudita.
Le ultime parole di Khashoggi
Il 17 ottobre 2018, il Washington Post pubblica il suo ultimo editoriale, in cui Khashoggi critica aspramente la mancanza di libertà di stampa, espressione e pensiero dei paesi arabi – dove la maggior parte dei cittadini vivono di disinformazione e mal-informazione dettata da governi dittatoriali e da una stampa spaventata e obbligata all’omertà, per tutelare la propria incolumità.
La primavera araba del 2011 è stata la prima, vera, ferrea vox populi che in piazza ha richiamato alcune tra le Libertà Fondamentali sancite dalla Carta dei Diritti Universali dell’Uomo: la Libertà onnicomprensiva. Che è libertà di manifestare, di parlare, di pubblicare. Prima ancora, libertà di pensare. La speranza degli arabi scesi in piazza era quella di creare un mondo più libero, più occidentalizzato, se così si vuole definire, dove i governi oltranzisti avrebbero dovuto accettare la rivoluzione del pensiero e il cambiamento che, attraverso voci unisone, per le strade di Kabul, di Istanbul e Il-Cairo, si alzavano, cori e canzoni si diramavano tra le case fatiscenti, per richiamare il diritto primo e onnicomprensivo.
Sette anni dopo, Khashoggi viene crudamente squartato dentro al consolato di quello che si presuppone essere uno Stato di Diritto. L’auspicata libertà di espressione della sua terra natia muore così con lui.
Sul Washington Post, Khashoggi parla della speranza dei giornalisti riposta nei nuovi mezzi di comunicazione, che avrebbero liberato l’informazione dalla censura. Ma i governi hanno conseguentemente bloccato gli accessi ad internet, e hanno acuito i controlli e le aggressioni contro tutte quelle voci che hanno tentato di esprimere un’opinione avversa a quella del regime.
Concludeva con queste parole, Jamal Khashoggi, pochi giorni prima di essere brutalmente ucciso: «The Arab world needs a modern version of the old transnational media so citizens can be informed about global events. More important, we need to provide a platform for Arab voices. We suffer from poverty, mismanagement and poor education. Through the creation of an independent international forum, isolated from the influence of nationalist governments spreading hate through propaganda, ordinary people in the Arab world would be able to address the structural problems their societies face.»
Il caso italiano
La guerra alla libera stampa si muove di pari passo con la corsa al consenso dei governi populisti nati negli ultimi anni nei paesi occidentali. Un’onda di disinformazione si infrange sui cittadini, coadiuvati da governi intimidatori e da una comunicazione che viaggia alla velocità della luce e non si fa scrupolo di non essere vettore di verità, di notizia pulita, di oggettività e realismo. E le testate che mantengono il baluardo della libera informazione vengono attaccate, sia politicamente che personalmente.
Recente è l’aggressione fascista a danno di due giornalisti del quotidiano nazionale L’Espresso, Federico Marconi e Paolo Marchetti – tra gli assalitori il capo della fazione romana di Forza Nuova, Giuliano Castellino. Il CDR de L’Espresso scrive: «Non ci lasceremo intimidire da queste azioni fasciste, vili e vergognose. E continueremo a svolgere il nostro lavoro: informare i lettori.»
Chi vuole che l’opinione pubblica si omologhi sa come comunicare, sa come sorvolare su tutto ciò che è etico, morale, coscienzioso, al solo fine di aumentare un numero sempre più crescente di consensi.
Il Movimento 5 Stelle, in accordo politico con il partito capeggiato da Matteo Salvini, fa apertamente guerra alle testate giornalistiche che aspramente criticano un governo discorde, fatiscente, squilibrato, che di opposizione non vuole parlare, di politica coerente non sa comunicare. Il ministro degli Interni comunica politicamente attraverso le dirette di Facebook, le fotografie, poche righe per riassumere situazioni che necessitano di concrete analisi, di giuste contrapposizioni ideologiche, di profonde conoscenze politiche, antropologiche, sociali ed economiche. Matteo Salvini è in grado di riassumere il concetto politico in una fotografia, in un tweet con un limite massimo di caratteri, ed è in grado, allo stesso modo, di criticare la stampa eterogenea, la voce discorde, altisonante, che in Italia non esiste se non nelle testate giornalistiche che riportano e raccontano.
Dall’altra parte della medaglia, il M5S attacca ripetutamente le testate italiane dichiarate di sinistra, come Repubblica, Il Messaggero o Il Corriere della Sera, come portatori di nefandezze, di notizie false. Il ministro Di Maio, ministro dello sviluppo economico, del lavoro e delle politiche sociali, ad ottobre, ha provocato il mondo della libertà di stampa, asserendo di voler eliminare l’Ordine dei Giornalisti. In Italia, chiunque si identifichi come giornalista deve essere ammesso all’Ordine, che ha un codice etico e deontologico. Sul blog ufficiale dei 5 stelle, ricorrente è la scelta del complottismo contro potenziali poteri forti, governi mondiali da scardinare, nonché legami infausti tra grandi testate italiane e l’andamento dello spread. Ricorrendo ad una propaganda populista, che ignora i fatti al fine di alimentare credenze nel sottosuolo italiano. Ma che convince gli occhi e le orecchie del popolo italiano a credere che ogni testata sia coadiuvata da un potere maggiore. E così le notizie false, senza fonti, senza basi, raggiungono i cittadini.
L’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni) ha denunciato le affermazioni diffamanti del ministro Di Maio, apertamente spaventata dall’idea di poter estromettere l’Ordine dei Giornalisti, considerato dai pentastellati un potere forte da distruggere.
L’attacco alla stampa
L’attacco alla stampa, il fenomeno delle fake news, i governi che utilizzano i social network per accreditarsi consensi, la disinformazione, la povertà di cultura e, ancora peggio, la repressione che porta infine alla morte, fanno parte di un fenomeno di portata mondiale che travolge da decenni gli stati orientali e, come un’onda propagatrice, raggiunge l’Occidente, fucina di raziocinio, di giustizia, terra natia dell’Illuminismo, madre patria della filosofia etica, morale, campo di battaglia fervente in cui, a colpi di parole e baionette, si è cercato di lottare al fine di giungere a questo punto. Che diventa punto di non ritorno se la tecnologia e la post-modernità riduce tutti gli esseri umani a vasi vuoti da riempire con la prima notizia più appetibile. Che sia vera o meno poco importa. E la situazione peggiora oltre modo quando, a capo dello Stato, vi sono sistemi che non cercano di tutelare la trasparenza dell’informazione, la chiarezza della notizia, la giustizia, ma si muove per populismi, per dati scontati e non certi. Il consenso aumenta da parte di un cittadino che non solo ignora la realtà dei fatti ma, da un certo punto, non è più in grado di discernere la realtà effettuale.
Mettere nello stesso grande calderone il caso Khashoggi, i governi populisti e, dall’altra parte, le colpe senza redenzione di chi non si pone domande ma accetta tutte le risposte, ha l’unica funzione di vedere un fenomeno a 360°. La guerra è aperta. Come scriveva Jamal Khashoggi, soffriamo di malgoverno e sottocultura, l’unico modo per superare lo stallo è creare un centro internazionale, trasversale, isolato dall’influenza dei governi, al fine di risolvere i problemi strutturali. Si riferiva all’Arabia Saudita ma, ad oggi, sono parole che possono riferirsi a qualunque altro Stato in cui non vige la totale libertà di stampa.