Il nome di Roberto Vecchioni è associato, per i più, al cantante di Luci a San Siro, Samarcanda ed altre canzoni, entrate a buon diritto nel panorama della musica italiana. Non tutti sanno che però Roberto Vecchioni è anche scrittore, il cui libro forse più conosciuto è Il libraio di Selinunte.
In realtà, se si ascoltano e, soprattutto, se si leggono con attenzione, i testi delle canzoni di Vecchioni, rivelano un profondo legame tra il dualismo letteratura-musica in cui, solo apparentemente, è scissa la sua persona. Roberto Vecchioni, infatti, è prima di tutto un professore, ed in particolare professore di lingue e letterature classiche, con una spiccata propensione per la cultura e civiltà greca. Questo lo rivela la sua musica. Solamente un’anima affascinata e conoscitrice del mito greco avrebbe potuto scrivere testi come L’Ultimo Spettacolo, Alessandro ed il Mare, Esodo e molti altri, in cui forte riecheggia la sapienza antica. Il testamento di questa passione, lo afferma lo stesso Vecchioni, non è però una canzone, ma un libro. L’ultimo libro scritto dal cantautore, uscito per Einaudi lo scorso autunno, dall’evocativo titolo Il mercante di Luce.
La storia appare, di primo acchito, estremamente semplice, di un romanzesco al limite dello scontato: Stefano Quondam è un professore liceale di greco, un sognatore che, a causa della sua incapacità di mantenere i piedi per terra e la mente fissa anche sul lato pragmatico della vita, ha allontanato da sé la moglie, stufa di vivere con un uomo che non è mai in grado di risvegliarsi dal suo perenne stato di sogno infantile e per questo chiuso in una bolla di egoistico solipsismo. Stefano ama la Grecia più di qualsiasi altra cosa al mondo ed è là che, dopo essersi costruito un nebuloso mondo parallelo, egli vive ed è se stesso. Tuttavia c’è una cosa che quest’uomo ama più della letteratura, ed è suo figlio, Marco. Il figlio di Stefano è affetto da una rara malattia, la progeria, che si caratterizza come il motore dell’azione del romanzo. Questa malattia, infatti, comporta l’invecchiamento precoce di chi ne è affetto, con un ritmo di 8 anni in 1 e, quindi, lascia un’aspettativa di vita bassissima. Stefano ed il figlio vivono, quindi, in una perenne lotta contro il tempo, ed è nel modo con cui questa lotta viene ingaggiata, che questo libro esce dalla mucchio anonimo delle miriadi di romanzi “da edicola” ed entra nel novero dei libri ben scritti che possono essere definiti “letteratura”.
Stefano Quondam dà piena voce al pensiero di Roberto Vecchioni; ma, forse, a saper leggere tra le righe, Vecchioni si frammenta in entrambi i protagonisti del romanzo e parte di lui si può trovare anche in Marco. «Non importa quanto si vive, ma con quanta luce dentro», è la frase che si legge sulla copertina, ed è la chiave di lettura non solo del titolo, tanto evocativo, quanto enigmatico, ma dell’intera storia e del tentativo, apparentemente assurdo ed inutile, di Stefano di donare un po’ di vita in più al figlio. La frase è pronunciata proprio dal professore a Marco, nel suo tentativo di spiegargli il perché della sua scelta, perché ha scelto di trascorrere il tempo che rimane da vivere assieme semplicemente a parlando.
Questo libro, infatti, è intessuto di dialoghi, riflessioni, storie. Ma le parole non sono parole qualsiasi, sono l’essenza dell’esistenza secondo quel padre perso nel passato, sono i miti, e quindi il pensiero, della Grecia classica. Un po’ come nel Pavese di Leucò, il tessuto di questo libro non è l’azione propriamente detta, ma la speculazione, attraverso i nuclei tematici del pensiero classico.
Nel principio furono i miti dell’antica Grecia tramandati a noi dai cantori leggendari, Omero, Sofocle, Euripide, Saffo e tanti altri. Da loro germogliò la radice di ogni pensiero del mondo occidentale, cioè la promessa di ri-creare il mondo attraverso la sua rappresentazione: «Gli uomini li ha percorsi tutti e scandagliati, sbugiardati, ha esaltato il loro pensiero rispetto all’eterno». Roberto Vecchioni attinge al suo ricco background di umanista e artista per narrare una fiaba piena di passione (per la poesia, l’arte, la bellezza) e com-passione (per le miserie del genere umano).
Quondam coltiva un’illusione insieme tragica ed eroica. Accompagnare il figlio attraverso un viaggio nei pensieri già pensati dagli antichi saggi, scrigno di ciò che è veramente eterno: il pathos esistenziale che i greci usarono per condire la loro ars narrandi. Il fuoco e gli inganni di amore e psiche, la solitudine della non appartenenza, la notte sorella d’eternità, il caso e la necessità, il destino contro il daimon individuale, la paura e la rabbia, il valore e la coerenza, il desiderio e la speranza, la ripicca, il rancore, la noia, il dolore senza il quale non si reggerebbe il mondo.
Tutto questo potrebbe apparire inaccettabile. Cosa se ne fa un ragazzo malato, che non può vivere la sua giovinezza, inseguito dal tempo in una corsa mozzafiato più di qualsiasi altri uomo, di favole antiche? La risposta a questa domanda la si può trovare in tutti i grandi pensatori e scrittori nel gran fiume della storia. Poniamola a Platone, a Leopardi, a Pavese. Ma chiediamola anche a noi. Il lettore fa suo il regalo che Quondam fa a suo figlio ed emerge dalla lettura quasi purificato, dopo una catarsi tragica. Quello che rimane è uno strano senso di appartenenza e calma, come se si fosse compreso lo scorrere naturale delle cose, come se si fosse appreso come rallentare e vivere il tempo, non fuggirlo. La lotta di Marco è una lotta vera, lui ha dietro di sé la falce della “nera signora”. Le nostre sono corse effimere, più dettate dalla smania in cui siamo immersi nelle nostre “magnifiche sorti progressive” e dall’imperativo categorico “il tempo è denaro.”
«Io, in fretta, di corsa, nel tempo che ho e che abbiamo, ti voglio passare la bellezza. Noi, Marco stiamo tentando di cantare un poema in una strofa». L’essenzialità del mito è questa. La capacità di creare nella bellezza, la facoltà di entrare nell’essenza dell’esistente e trarne il nocciolo, con l’ingenuità e lo stupore dell’infanzia, che è fantasia e quindi vita.
Un ulteriore modo per comprendere a fondo la portata di questo romanzo è quello di metterlo in relazione anche con l’ultimo album di Roberto Vecchioni, Io non appartengo più, ed in particolare con la canzone iniziale, Esodo, manifesto, a dispetto del titolo, di un’esplosiva voglia di vivere, ma vivere una vita vera, naturale.
Perché io non appartengo più
a queste miserie mobili,
a quest’inventario di suppellettili,
al falso mito dell’uomo indomito,
all’effetto domino;
Non appartengo più alle scaramucce
sull’esistenza di Dio, sul governo ideale,
sull’origine del male, sulla felicità virtuale:
Io sono là,
dove è sempre stato l’uomo,
viaggiatore vincente
del suo dolore,
nel teatro dove non recita,
ma vive le parole
Io sono là
e niente mi confonderà,
niente mi perderà:
Perché io sogno là,
sono nelle parole
che non hanno confini,
non hanno età,
nelle parole che
non risolvono il giorno,
ma l’eternità:
Io sono là
nelle parole greche,
dove la fine è il principio,
il silenzio l’insieme di ogni voce.
Costanza Motta
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