Come classificare il Don Carlo, l’opera dai mille volti, all’interno del corpus verdiano? E, soprattutto, come definirlo all’interno della storia musicale e culturale europea? Ora, la recensione di uno spettacolo non è certo il luogo più adatto per discutere l’argomento, su cui sono stati versati e sicuramente si verseranno chilometri di inchiostro, ma ritengo interessante introdurre la critica delle recite fiorentine con una breve riflessione generale. Di Don Carlo si è spesso parlato come dell’opera decadente di Verdi, luogo dove si respira un’aria come di sfaldamento di ogni punto d’appoggio. In tutta questa desolazione (la quale è più interiore, dal momento che all’esterno vengono manifestate reazione parossistiche che contribuiscono ad complicare il labirinto degli affetti) la salvezza viene cercata “in un mondo migliore”, l’aldilà. Esso, nel sublime pessimismo verdiano, ci viene però presentato, e in maniera non esplicita, irraggiungibile in quanto inesistente. Il decadentismo di cui si può parlare per il Don Carlo di Verdi mi pare dunque più che altro quello filosofico di Nietzsche piuttosto che quello letterario di Wilde e D’annunzio, dal momento che nel filosofo tedesco abbiamo quell’elemento di angoscia che aleggia pure in tutta la partitura. Le risposte a tale angoscia, va detto, sono diversissime nei due, se non antitetiche. Emerge comunque chiarissima la difficoltà nella catalogazione di questo capolavoro per sua natura sfuggente (lo stesso numero di versioni esistenti complica il lavoro), a mio avviso la massima vetta raggiunta dal compositore di Busseto. Non me ne vogliano le Traviate, gli Otelli, i Falstaff e tutti gli altri, ma con Don Carlo Verdi colse la dimensione del sublime, aiutato fra l’altro da un libretto eccellente, dove problematiche di natura politica, religiosa e sociologica si uniscono armoniosamente a creare una sorta di Dialogo sull’Umanità. Non si tratta di un minestrone contenente di tutto e di più, ma è una tavolozza sempre cangiante, che lascia al fruitore la possibilità di scegliersi l’interpretazione più adatta. E’ questo il pregio dei grandissimi capolavori: non danno risposte, ma sollevano dubbi.
Non ci sarebbe quindi nemmeno bisogno di dirlo: l’esecuzione di quest’opera necessita sempre l’eccellenza. Eccellenza che, purtroppo, non ho riscontrato nelle recite che hanno aperto quest’anno il 76° Festival del Maggio Musicale Fiorentino. Si sapeva già da tempo che l’opera sarebbe stata eseguita in forma di concerto, essendo stata annullata, per la grave crisi finanziaria che sta attraversando il teatro, la regia di Luca Ronconi inizialmente annunciata. Questa formula non avrebbe nociuto in maniera eccessiva se l’esecuzione musicale fosse stata di buon livello, e invece lo scarso scavo psicologico dei personaggi che quasi tutti i cantanti hanno offerto ha appiattito lo spettacolo, rendendo monotone le quattro ore circa di durata. Dmitry Beloselskiy è stato certamente il “migliore in campo”. Il suo Filippo II è dotato di nobile accento, è sicuro nelle note gravi e conferisce al tormentato sovrano quella dolenza tipica delle voci dell’est europa. Nel celebre duetto, il Grande Inquisitore di Burchuladze, dall’emissione malferma, impallidiva. Abbastanza buona anche la prova di Ekaterina Gubanova, la quale si è trovata a suo agio più nei momenti drammatici (svettava in maniera impressionante specialmente nel terzetto del giardino con Carlo e Posa) che nella celebre “canzone del velo” iniziale. L’impressione, però, è che questa Eboli sia tutto meno che personale, e i vari dettagli nel fraseggio appaiono quindi non come scelta interpretativa dell’artista, ma come scrupoloso (e comunque riuscito) perseguimento di correttezza formale. Una prova di routine. Lo stesso problema vincolava anche Kristin Lewis nel tratteggiare il ruolo di Elisabetta: di lei si potrebbe dire che il solfeggio è certamente eccellente, ma creare un personaggio non è solfeggiare. La Lewis era fra l’altro inficiata da una pronuncia fastidiosamente americaneggiamente: questo aspetto viene troppo spesso sottovalutato, ma è essenziale se si vuole risultare credibili come interpreti efficaci della parola musicale.
Il Posa di Gabriele Viviani era invece pallido anche da un punto di vista prettamente vocale: in particolare, sottolineo le imperfezioni nel legato, e in specie quando questo si concludeva su note gravi. Tuttavia, anche nel registro medio e acuto il suono era raramente emesso con quella rotondità che è caratteristica primaria del baritono verdiano. La prova peggiore l’ha però concessa Massimo Giordano nel ruolo eponimo. La voce è perennemente in condizioni precarie sia nella zona di passaggio che nella zona acuta, e le cose non migliorano al centro, dove uno stranissimo vibrato impedisce il canto omogeneo.
Ho tenuto per ultimo il Maestro Zubin Mehta, poiché la sua lettura non è facilmente liquidabile in due parole. Mehta ha infatti soddisfatto pienamente, aiutato da un’orchestra come sempre eccellente, nella resa di quei momenti dove la melodia si fa più ampia e si abbandona a un certo sentimento ardente e romantico che può rievocare il Trovatore. Davvero interessante anche la gestione degli ottoni, che, quando esplodevano in scene concitate, ricordavano sonorità curiosamente (ma non troppo…) wagneriane. Ciò che ha reso non del tutto soddisfacente la prova di Mehta è stata la mancanza di “leggerezza” nel trattare gli accompagnamenti di scene più liriche e languorose, o di altre più intimiste: ne risultava un suono orchestrale complessivamente troppo denso.
Insomma, l’apertura del Festival ha in parte deluso, ma andava in ogni caso tenuto conto degli sforzi che in questo momento il Maggio Musicale sta affrontando per non privare il suo pubblico dell’offerta musicale che merita. Il Festival è d’altronde appena iniziato, e sono presenti in locandina eventi molto allettanti quali il Macbeth nella versione originale, il concerto di Gatti o la Maria Stuarda con la Devia.
Michele Donati