In questi giorni il dibattito sul “gioco del rispetto”, iniziativa didattica nata in Friuli-Venezia Giulia dedicata alle scuole dell’infanzia, già balzato agli onori delle cronache regionali, assurge a motivo di acceso confronto anche sulla stampa nazionale. Il motivo? È sufficiente leggere i titoli delle maggiori testate per comprenderlo: “Bimbi travestiti da bambine: leggete il documento choc che regola il gioco del gender” (il Giornale); “Travestirsi e nominare i genitali: ecco il “gioco del rispetto” negli asili” (Leggo); et caetera, più o meno su questo tono.
L’abilità – squisitamente politica – di strumentalizzare l’informazione è certamente la principale ragione di diffusione di una “notizia” che, letta oltre il sensazionalismo e la faciloneria, diverrebbe certamente di interesse moderato. Confidiamo perciò nell’abilità critica dei lettori, rivolgendo il nostro interesse a quanto sembra passare per lo più sotto silenzio, risultando tuttavia la base essenziale per la comprensione delle ragioni (valide o meno, è da indagarsi) che fondano il motivo di un simile progetto educativo e parte essenziale di una sua eventuale critica: vale a dire, alcune considerazioni circa le premesse scientifiche e filosofiche del dibattito emergente sulle “teorie del genere”. Ci riferiremo pertanto all’unico testo attendibile per esercitare una critica ragionevole, ossia le “Linee Guida” del “Gioco del Rispetto”, a cura di Lucia Beltramini e Daniela Paci (1).
Innanzitutto, la prima frase dell’introduzione alle “Linee Guida” dovrebbe già farci riflettere su quale sia la ratio essendi fondamentale: “il Gioco del Rispetto è un progetto voluto da un gruppo di lavoro fortemente convinto dell’importanza di anticipare il più possibile l’insegnamento al rispetto di genere tramite il superamento degli stereotipi”.
Dobbiamo pertanto riconoscere a quale fine essenzialmente il progetto si rivolge: la promozione dell’educazione al rispetto di genere, vale a dire il riconoscimento di eguali diritti sociali, anche nella più elementare sfera della differenza di inclinazioni personali, ad entrambi i sessi. Piacerebbe dire che ciò sia, se non un risultato ottenuto, quantomeno una direzione condivisa; tuttavia, non pare proprio possibile. Dato comunque per concorde un simile obiettivo, non si può che essere favorevoli alle iniziative, e in particolare a quelle formative, che si pongano come scopo primario un raggiungimento di maggiore consapevolezza riguardo alla parità di genere. Il punto si risolve dunque nel chiedersi: in che misura il progetto nella fattispecie appare uno strumento utile in tal senso? Un metodo pedagogico utile passa, necessariamente, attraverso una solida conoscenza delle dinamiche psicologiche e sociali che riconosce come esistenti e che vuole, nella misura delle sue possibilità, modificare. Ma quanto possiamo dire che il “gioco del rispetto” appaia cosciente delle strutture fondanti nello sviluppo non solo del rispetto, ma soprattutto nella formazione della stessa identità di genere?
Una delle teorie fondamentali poste a sostegno è quella secondo cui “in realtà, molte delle differenze tra bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne, nella nostra come in altre culture e società, sono frutto di costruzioni sociali, culturali e storiche, espressioni del genere di una persona piuttosto che elementi distintivi di un sesso o dell’altro” (§ 1.2, ibid.).
Il punto è: quali differenze? Allo stato attuale del dibattito, una distinzione tra identità biologica, cioè derivante direttamente dal genere di appartenenza ed identità sociale, frutto di fonti e condizionamenti esterni, risulta non soltanto impossibile, ma logicamente insensata. Per un soggetto-uomo, la dimensione corporea resta inestricabilmente connessa alla rielaborazione psicologica dei dati sensoriali e perciò, in ultimo, all’attribuzione di senso. Voler modificare certe differenze ritenute come esclusivo frutto di elementi sociali, senza averne distinta con certezza l’origine, nulla può essere che un tentativo, certamente non una operazione raziocinante.
Ancor di più: è sottesa l’idea (§ 2.4) per cui la formazione nell’età dell’infanzia costituisca un vincolo strutturale alla categorizzazione successiva in età adulta e che pertanto sia necessario impedire da subito la formazione di una distinzione di genere negli aspetti che possono portare, in seguito, ad una impari considerazione di merito tra di essi. Siamo dunque certi che questa sia una operazione possibile? Implicherebbe una conoscenza approfondita della struttura di apprendimento della mente umana: in che misura la stereotipizzazione è costitutivamente necessaria all’apprendimento e in che misura può e anzi, a seconda degli autori (rectius, a scanso di esser tacciato di maschilismo, delle autrici) deve essere contrastata in nome di una ricostruzione paritaria dell’etica di genere? (§ 2.1). Pare tutto fuorché acclarato e fondare un metodo pedagogico su queste premesse può al meglio essere ritenuto come ingenuo.
Quanto finora considerato deve farci ragionare anche sul significato culturale e sociale della diversità. Siamo così certi che il riconoscimento di diversità sia necessariamente l’anticamera della violenza, della prevaricazione e della disparità? Secondo le “Linee Guida” (§ 2.2), vi è un passaggio necessario che porterebbe dal riconoscimento della differenza di inclinazioni tra i due sessi alla percezione di maggior dignità di quello maschile e, addirittura, in casi estremi, al sentirsi legittimati ad esercitare controllo e violenza nei confronti di partner e figli. Ora, ciò appare francamente ai limiti accettabili dell’ingenuità per un pedagogo: appare risibilmente semplificativa la visione per cui, in sostanza, “il maschio è reso dalla società più incline a giochi che fanno uso di categorie di forza, dominanza e aggressività, allora legittimando questa tendenza gettiamo il seme della futura possibilità di creare uomini malvagi”. Bisogna osservare che correlare “forza” a “malvagità” modifica essenzialmente l’ambito dell’espressione, introducendo una determinazione etica. Ora, per i fini che ci si prefigge, ossia l’educazione all’eguaglianza tra i generi (e cioè di fatto innanzitutto al contrasto della violenza, non solo fisica, sulle donne) sarebbe più saggio domandarci a che punto del processo di sviluppo (oppure, a seguito di quale condizionamento) vi sia una modifica che nella mente del bambino legittimi l’uso della forza come strumento di malvagità e in che maniera questa malvagità sia portata a legittimazione. In tutto ciò si dimentica che questo sì, con tutta probabilità, ha delle ragioni fondatrici anche in età prescolare ed è su questa legittimazione morale che dovrebbe inserirsi un tentativo di comprensione delle dinamiche sottostanti.
Come terzo elemento, che menzioniamo solo a titolo di completezza in quanto preso in considerazione mediatica, ma assolutamente estraneo al dibattito ragionevole che possa essere fatto sul “gioco del rispetto”, notiamo che si è cercato di ottenere consenso, in sede critica, pretendendo di inserire questo progetto nell’ambito della cosiddetta “ideologia gender”. Diremmo pure che se questo elemento non fosse stato oggetto della principale contestazione originaria, difficilmente avremmo visto tutto ciò sui giornali.
“Ideologia gender” è il nome collettivo sotto cui si vorrebbe riunire tutta una serie di tesi per lo più improbabili provenienti da qualche marginale teorico, prese a pretesto per ravvisare in ogni progetto educativo relativo ai temi dell’identità sessuale un tentativo di relativismo estremo che in sostanza punterebbe alla corruzione delle menti giovani attraverso omosessualizzazione, trasformazione dell’identità di genere percepita, fino alla pedofilia e ad una neolingua di orwelliana memoria. Sulla dignità di discussione di una simile descrizione dei fatti confideremo anche qui nelle summenzionate capacità critiche di chi legge, introducendo soltanto una considerazione.
Di fatto, non esiste ad alcun livello di dibattito scientifico qualcosa che si definisca “ideologia gender”. Chi ne siano gli autori, chi gli attori più o meno inconsci, quali siano i suoi fini, non è dato sapersi. Con buona pace anche di qualche giovane filosofo recentemente oggetto di ampi riconoscimenti di critica, parlare di “ideologia gender” è, per sua stessa essenza, un’operazione ideologica e di certo non una valida modalità riassuntiva.
Se questo non è perdonabile da un punto di vista squisitamente accademico, quello che è ancor meno perdonabile da un punto di vista umano è cassare un tentativo di risoluzione pedagogica alle cause fondanti la violenza sulle donne (e più in generale di introduzione ad una parità morale tra i sessi), in quanto facente parte di una ideologia inesistente, utile soltanto a fabbricare fango e vendere qualche copia in più.
L. F.
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1. https://docs.google.com/file/d/0B0KH880hr51eY2hLT2hsVjZSVTQ/view?pli=1