di Camilla Volpe
Il fascino di Napoli è da sempre segnato da una vena contraddittoria, da un’antitetica frattura che Anna Maria Ortese, nata a Roma nel 1914 ma trasferitasi presto nel capoluogo partenopeo, coglie ne Il mare non bagna Napoli – uscito per Einaudi nel 1953 nella collana neorealista I Gettoni, diretta da Elio Vittorini. L’autrice studia il complesso affresco sociale napoletano e rappresenta la Napoli “non bagnata dal mare”, dove l’uomo è solo ombra e nevrastenia.
L’intera opera, una raccolta di cinque racconti, ha l’obiettivo di sgretolare dalle fondamenta gli stereotipi legati a Napoli e al suo popolo, partendo dal microcosmo di Eugenia, una bambina del sottoproletariato dei bassi mezza cecata, la quale, allorché indossa un paio di occhiali, si trova davanti un mondo quasi in putrefazione, e passando per quello di Anastasia, una non più giovane borghese incatenata dagli obblighi alla famiglia dopo la morte del padre, tanto da dover rinunciare al matrimonio. I due racconti che seguono, invece, sono reportage che parlano della città degli indigenti, folla di larve, alloggiati nei Granili, casamenti in cui non si respira che muffa e morte. Un’ossessiva attenzione dell’autrice nella descrizione dei particolari più trucidi e laidi delle loro condizioni di vita rivela in realtà che il loro abisso esistenziale è legato ad un abbandono totale a ciò che è naturale (e non razionale): Napoli è per l’Ortese un angolo dimenticato da Dio che affoga nei piaceri del sesso, tra la perdita generale della ragione. Nell’ultimo capitolo il bersaglio critico è un panorama intellettuale ormai del tutto disilluso e inerte.
Il mare non bagna Napoli si presenta, quindi, come un viaggio affrontato con bussole impazzite in un mondo fatto di colori turbinosi che fanno da sfondo a una vita furiosa senza armonia; è una pungente critica mossa da chi «nella celeste conformazione di queste terre vede ormai nel mare solo acqua, nei vulcani altri composti chimici, nell’uomo solo viscere». Ma l’autrice stessa lo ammette: in questa città «se appena qualcuno accenna un qualche sviluppo critico, […] è ucciso». E allora l’Ortese fa l’unica cosa possibile a chi tanto ama ma vede la realtà con una grave lucidità: fugge e lascia per sempre la sua terra, dove non tornerà più.
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