«Il mondo era così recente che molte cose erano prive di nome,
e per citarle bisognava indicarle col dito».
Capolavoro indiscusso che valse a Gabriel Garcia Màrquez il Premio Nobel per la letteratura nel 1982, Cent’anni di solitudine racconta la storia della famiglia Buendìa e delle sue sei generazioni che si susseguono nell’arco di cento anni nel paesino di Macondo immerso nella foresta colombiana, ai margini della realtà, continuamente sospeso tra sogno e realtà.
I due capostipiti, Jose Arcadio Buendìa e Ursula Iguaràn, danno inconsapevolmente inizio a un vortice di eventi destinati a ripetersi nel tempo: scaturisce così una circolarità del tempo che, oltre a essere la caratteristica principale dell’opera, infonde al lettore una sensazione di labirintica prigionia e arrendevolezza di fronte al succedersi degli eventi.
Parallelamente alle vite dei componenti della famiglia avviene l’evoluzione della cittadina, microcosmo dell’intera Colombia, sebbene i fatti non seguano un ordine cronologico. Infatti, gli assalti di Francis Drake a Riohacha rievocano i saccheggi dei corsari inglesi lungo la costa spagnola del XVII secolo; la fondazione di Macondo e l’arrivo degli zingari fanno, invece, riferimento alla fondazione della Colombia (1830), dopo la dissoluzione della Grande Colombia di Simòn Bolivar. Il vero colonnello Aureliano ha combattuto la guerra dei mille giorni (1899-1901), conclusasi realmente con la resa dei liberali che hanno firmato la pace nella compagnia bananiera di Neerlania, il 14 ottobre 1902. Infine, l’omicidio dei diciassette figli del colonnello Aureliano Buendìa è volto a rappresentare i primi omicidi politici nella Colombia degli anni Venti, periodo denominato “La Violencia”.
Se da una parte è possibile riscontrare degli elementi ricorrenti in tutto il racconto – a partire dai nomi dei personaggi che si ripetono, i loro caratteri, le vicende, gli amori e i destini – dall’altra vi è un’innumerevole quantità di eventi inaspettati e inverosimili. È il cosiddetto realismo magico (consacrato così per il continuo ripetersi dell’intreccio tra realtà e finzione), grazie a cui le apparizioni di fantasmi, l’ascesa al cielo di un componente della famiglia, un ininterrotto diluvio di quattro anni e altri numerosi fenomeni sovrannaturali si integrano con la realtà quotidiana della famiglia. Tra un evento fantastico e uno reale, sullo sfondo cangiante di guerre devastatrici, l’autore racconta la vita e le sfortunate vicende di personaggi imprigionati in una profonda solitudine, inesorabile condizione dell’umanità: l’uomo combatte e si agita per non ritrovarsi da nessuna parte, per essere sempre nello stesso punto. Il tempo e i fatti si ripetono sviluppando cicli uguali a se stessi in cui oppressione e desolazione sono i sentimenti più comuni.
Sembra contenere cento storie diverse, accomunate dal sangue e dal filo conduttore: la solitudine e i presagi. Occorre disegnare l’albero genealogico della famiglia Buendìa per non perdere il filo. La velocità della narrazione, l’originalità della trama e la misteriosa profondità con la quale è tratteggiato il profilo di ogni personaggio rendono l’opera di Màrquez tra i migliori componimenti letterari del Novecento.
Nicole Erbetti