Siete a cena da un amico, siete sulla sua veranda, è una di quelle sere d’estate in cui tutto è tranquillo. State mangiando e a un certo punto, mentre state parlando, lui fa: “sapete? Ho letto un libro”. E allora, uno di voi, per correttezza, chiede “di che parla?”. E lui, dopo una scrollata di spalle fa “di niente”. Questo è ciò che si potrebbe dire di Cattedrale di Raymond Carver, nel bene o nel male.
Il libro è snello, formato di 12 racconti, tutti levigati fino alla perfezione, senza una parola fuori posto. Certo, a primo impatto può scioccare. Perché Carver, a differenza di altri, non sorprende per il suo virtuosismo, per la retorica, anzi, le sue sono frasi brevissime, a volte solo principali, altre volte reggono una sola subordinata. Ma, andando avanti, si comincia a conoscerlo, a farselo amico, come uno di quei vecchi, un po’ ubriachi, che ti avvicinano al bar, di domenica pomeriggio, per raccontarti i loro aneddoti e montare qualche storia.
Nei racconti, come dicevamo, non succede nulla: o almeno, di cose ne succedono, anche tante, ma non come pensiamo noi. Non ci sono gli eroi, né le avventure spericolate, a cui ci avevano invece abituato gli scrittori americani, come Jack Kerouac. No, quelli di Carver sono personaggi, in una parola, umani. Le storie di Carver, dice bene Alessandro Baricco nel suo programma Totem del 1998:
sono come pezzi di un lungo nastro che è la vita
Un esempio? In Una cosa piccola ma buona, uno dei racconti presenti nella raccolta, la storia è quella di una donna che va a ordinare una torta per il figlioletto, un bambino delle scuole elementari, solo che il giorno del compleanno il bambino finisce sotto una macchina e, una volta tornato a casa, si addormenta sul divano e non riesce più a svegliarsi. Il padre e la madre si fiondando all’ospedale e stanno lì impazienti, con i dottori che continuano a rasserenarli, dicendo che non succederà niente, e, mentre il padre è a casa, per farsi una doccia, sente il telefono suonare e la voce di un uomo che ripete ossessivamente il nome del figlio: i genitori, di primo impatto, pensano che sia il pirata della strada. Poi il bambino, stranamente in coma da giorni, apre gli occhi. Poi muore. E la madre si ricorda di quella torta, così i due se ne vanno al centro commerciale e comincia una lite con il fornaio, che, a dire il vero, è un poco rissoso: alla fine, però, chiarita la questione, si siedono tutti attorno a un tavolo e cominciano a mangiare delle paste calde, cose piccole ma buone.
E tutta la raccolta è fatta di queste piccole catastrofi personali: ci sono uomini che perdono il lavoro e rimangono sul divano costantemente, fino a quando il frigo non si rompe, fatto che li costringe ad alzarsi per accompagnare la moglie ad un’asta fuori città; un uomo invitato a cena da un collega di lavoro che vive con una moglie che non vede l’ora di raccontare la storia della sua dentatura orrenda e con un pavone; c’è un professore d’arte, abbandonato dalla moglie, moglie che però continua a chiamarlo, in cerca di una baby-sitter; ci sono alcolizzati rinchiusi in una struttura di ricovero (è importante da dire: Carver, come Ernest Hemingway e William Faulkner, due dei suoi idoli, passò buona parte della vita con la scimmia dell’alcol) che si raccontano le proprie vite; una donna che vuole diventare indipendente e allora si mette a vendere porta per porta delle vitamine, causando non pochi problemi al marito, soprattutto quando l’attività non va a gonfie vele. E poi c’è l’ultimo racconto, quello che dà il nome alla raccolta (se avete la possibilità, leggetelo in lingua originale), che tratta di un amico della moglie, un uomo cieco che ha appena perso la compagna, che fa visita alla coppia: all’inizio l’uomo è irrequieto, perché a nessuno fa piacere avere persone sconosciute in casa, figuriamoci se cieche. Ma, quando la moglie sale per dormire, i due cominciano a legare, prima facendosi uno spinello, poi, mentre guardano un programma alla televisione a colori, appena comprata dalla coppia, il protagonista chiede «ma tu sai come è fatta una cattedrale?». Alla risposta negativa dell’uomo, comincia un fallimentare tentativo di spiegarlo a parole, quindi, il cieco chiede di portare un foglio e una matita o una penna, qualcosa per scrivere.
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Certo, di primo acchito queste storie possono sembrare banali, stupide, quasi verrebbe da dire che questo autore difetti di fantasia. Per questo occorre vedere Carver inserito in quell’infinito essere, continuamente in movimento, che è la storia della letteratura, almeno quella americana: una storia della letteratura che potremmo definire come un organismo che fa gli anticorpi.
Se in un primo momento il morbo era la schiettezza di Hemingway e gli anticorpi la letteratura sperimentale, quella di Thomas Pynchon o di William Burroughs, a un certo punto questi anticorpi si trasformano nella patologia. Un eterno ritorno. Ed ecco che ai drogati sulle navicelle e ai militari che usano la propria “mazza” per segnalare l’imminente caduta dei razzi V2 vengono sostituiti queste persone di provincia, con i loro problemi e le loro misere consolazioni. È la rivincita della provincia sule metropoli.
Anche lo svolgimento viene rivoluzionato, o meglio, viene innovato quello hemingwayano: le storie di Carver si riducono alla spannung, il momento di massima tensione. Lo mostra bene nell’ultima prefazione Francesco Piccolo, quando parla del primo racconto della raccolta, Penne, che comincia con le seguenti parole: «questo mio collega di lavoro», perché è come se ci fosse qualcosa prima, è come se fossimo appunto seduti sul tavolo in veranda a mangiare e il padrone di casa avesse cominciato a raccontare una storia partendo da pre-conoscenze di entrambi.
Per concludere: qualche anno fa, in un’intervista a Vasco Brondi, cantautore, meglio conosciuto con il nome d’arte Le Luci della centrale elettrica, si parlava dell’utilizzo del “Noi” come narrazione: ecco, se c’è qualcuno con cui si può usare quel “Noi” è proprio Carver, perché possiamo leggerle come storie lontane, distanti, di un’America oltre l’oceano, ma, se scaviamo a fondo, ci sarà qualcosa anche di noi, dentro al racconto.
di Mattia Marasti
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