Le radici culturali dell’azienda IKEA affondano direttamente nelle aride zolle smålandesi. Una delle prime, e più diffuse, immagini ufficiali mostra un vecchissimo giardino cintato da un muretto di pietra coperto di muschi e licheni: è il tipico paesaggio rurale dello Småland.
A quell’epoca l’azienda contava qualche centinaio di dipendenti, anni più tardi vengono fondati i dogmi basati sulla semplicità e l’informalità trasformandoli in un vero e proprio manifesto: la cultura-ikea viene creata e modellata su questi principi, uniti alla visione di Ingvar Kamprad e al concetto commerciale della sua neonata azienda. La filosofia del fai-da-te parte al momento dell’acquisto e prosegue fino a casa, dove il cliente si diletta a seguire le istruzioni per montare il suo acquisto.
Prevedendo con largo anticipo l’avvento, e la diffusione smodata, dell’automobile, il signor Kamprad ha prematuramente collocato i propri harem commerciali all’esterno delle aree urbane. L’essere un passo avanti, anzi in anticipo, sui tempi, e il sapersi adattare ai cambiamenti sociali, è sempre stato il punto cardine a fare da base all’azienda, anche quando ha lasciato il suolo natìo per espandersi oltre confine.
Oggi IKEA, colosso mondiale dell’arredamento, riesce ad influenzare le scelte e le vendite di tutta Europa non limitando il suo impegno solamente all’arredamento. Spot televisivi, manifesti e intere campagne pubblicitarie diventano veri e propri progetti creativi, sociali o anche programmi umanitari. Costruire un brand di questa stazza, forte, prestigioso e che perduri nel tempo comporta un impegno costante, così IKEA ha mosso i primi passi nei campi più disparati dall’arte, all’ambiente, ai diritti civili e oggi si trova a confrontarsi con il mondo dei social network.
Sia sul piano della comunicazione e delle relazioni, sia su quello del dibattito e dell’informazione, con i social network è in qualche modo cambiato anche il modo di percepire gli altri e ugualmente il metodo di narrazione di se stessi. Ora come ora, anche un gesto quotidiano come sedersi a tavola e mangiare una pietanza è all’ordine della competizione a suon di #hashtag e like che sfocia in una copiosa produzione di immagini simili tra loro.
Mentre la ricerca della composizione perfetta fa raffreddare le portate, la produttrice mondiale di mobili svedesi dice la sua ridendoci su, con uno spot ambientato nell’Europa del Settecento.
La scena iniziale è il pranzo di una famiglia nobiliare in tutta la sua solennità. La musica di Antonio Vivaldi e della sua Estate delle Quattro stagioni accompagna la condivisione della natura morta in tutto il reame alla ricerca del consenso. Il messaggio implicito di Let’s Relax è proprio questo «È solo un pasto. Non una competizione. Rilassiamoci».
L’antitesi, se così la vogliamo chiamare, arriva dall’American Psychological Association che, in uno studio datato 9 giugno 2016, ha dimostrato che scattare fotografie aiuta le persone a godersi ancora di più la quotidianità.
Tre ricercatori dell’Università di Yale, del Southern California e della Pennsylvania si sono uniti per rispondere alla domanda «Come fai a goderti quello che fai se pensi a fotografarlo?».
«Abbiamo dimostrato che, rispetto a quanto si possa pensare, la fotografia può aumentare il godimento di esperienze positive fino a coinvolgere maggiormente l’interessato»
Questo studio psicologico ha coinvolto oltre 2.000 persone attraverso una serie di 9 esperimenti che hanno dimostrato risultati sorprendenti. A patto che l’attività coinvolga personalmente il soggetto, non riguarda solo un maggior coinvolgimento ma un piacere e una soddisfazione non legate all’utilizzo di una vera e propria macchina fotografica: le persone cui è stato chiesto di “scattare immagini mentalmente” hanno riportato le stesse, identiche, sensazioni.
Una fotografia quindi amplifica la percezione che abbiamo della realtà, la espande e ci rende più partecipi, anche se è legato a molti altri fattori personali, sensoriali e sociali come ad esempio la nostra sensibilità, tratto personale che varia da un soggetto all’altro.
Il discorso potrebbe aprire dibattiti tra coinvolgimento e competizione: di sicuro tra i due termini sembra passa un abisso e non sembra scorrere certo buon sangue. Forse soltanto nella mediazione cosciente tra realtà e immaginazione, o in questo caso tra realtà e immagine, troviamo il vero punto d’incontro, una soluzione possibile.
Evitare di cadere nel tunnel dell’ingordigia della produzione e soprattutto condivisione delle immagini, o nella malattia del foodspotting, può essere un buon inizio per godersi la vita di tutti i giorni. Diciamo senza soffocarci di immagini.