Il libro L’identità culturale non esiste di François Jullien, appena uscito per Einaudi (acquista), ha un grande pregio: non è retorico. Niente buonismo, niente logica astratta e piaciona dell’integrazione senza limitazione, niente aboliamo-le-barriere, niente di questo. Per fortuna.
Pensare altrimenti
Jullien, sinologo, grecista e filosofo francese, tenta e riesce in qualcosa di più radicale: pensare la cultura a partire da concetti con i quali non siamo soliti pensarla. Fa un passo in là, come Socrate: ridefinisce i termini della questione e ci invita a seguire questa sorta di ridimensionamento. I problemi sono tutti qui, lo diceva anche Wittgenstein: usiamo concetti sbagliati per cose inesistenti; materializziamo il nulla per combatterlo.
Identità culturale e fuochi fatui
Qual è questo nulla? Secondo Jullien, è l’identità culturale. Sì, l’identità culturale, che da qualche tempo infiamma la lingua di una ridda in allargamento di politici. Anche Clifford Geertz, grande antropologo del secolo scorso, si domandava qualcosa di simile. Ha senso parlare di identità culturale? Anzi, ha senso parlare di cultura? Forse sono fuochi fatui che piacciono ai nostalgici e agli insicuri, e tra il parlarne e il definirli c’è di mezzo il mare.
Differenze
Comunque, il punto è semplice: ragionare in termini di identità significa ragionare in termini di differenza. Dispiace, ma è così. Significa definire, circoscrivere, tracciare i confini di un oggetto che per essenza è mobile, ossia la cultura. Identità significa aut-aut, o voi o noi, o qui o lì. La cosa prima o poi diventa un’ossessione, l’ossessione identitaria, come scrive il nostro antropologo Francesco Remotti. Jullien lo mostra con un esempio chiarissimo. Rubiamolo e adattiamolo al caso italiano.
Dante, nostro padre
Identità culturale italiana, si diceva. Già le parole stridono, ma proviamoci lo stesso. Ricordiamo, identità è circoscrizione, è limite, è differenza. Dunque se parliamo di identità culturale italiana non potremmo che farla risalire ad un nome: Dante Alighieri. L’esempio è banale, ma seguiteci. È Dante che ha scavato il terreno, innestato le radici, fatto germinare l’albero che si chiama identità culturale italiana. Senza Dante, niente Italia – anche se a pane e Dante non si vive.
O Dante o Manzoni?
Ma già qui sbagliamo; sbagliamo, perché sì, Dante è il padre della lingua italiana, ma no, non ne è l’unico artefice, l’unico progenitore diciamo così. Certo è impensabile una cultura italiana senza Dante – ma Manzoni dove lo mettiamo? Quel Manzoni che disperava perché dei Promessi sposi c’erano più copie pirata che altro. O Dante o Manzoni? Ma poi Tasso? Ariosto? I grandi contemporanei che ancora oggi battono con la loro manina sulla nostra spalla e ci dicono: ehi, guarda che quest’idea te l’ho messa in testa io.
Scarti, risorse
È meglio e Dante e Manzoni e Ariosto e Tasso; è meglio guardare allo «scarto» che lega questi nomi l’uno all’altro, e che insieme li allontana e per questo, di nuovo li avvicina, mostrandoli nelle reciproche differenze. Lo scarto che ne mette in luce le «risorse». Da Dante prendiamo questo, da Ariosto quest’altro, da Manzoni quest’altro ancora, e così via.
Allora capiamo. Jullien non ha di mira la cultura, quanto la pretesa di farne una palla da biliardo, d’inscatolarla e all’occorrenza montarci sopra un carrarmato per muovere guerra al vicino di casa. Basta allargare un poco la prospettiva (ricordate? Dante, Manzoni, lo scarto) e zoomare all’indietro per accorgersi che le cose funzionano così anche altrove: non confini, ma scarti, non differenze, ma risorse.
Universali inesistenti
È in termini di risorse che va pensata la cultura, di risorse disponibili a partire dallo scarto che separa e insieme avvicina gli elementi di una cultura. Risorse dantesche, per tornare all’esempio di prima, ma anche manzoniane – senza che le une si riducano alle altre in una sorta di assimilazione totale. La cultura è plastica, è mutevole, e difendere le risorse è attivarle: leggere Manzoni per dispiegare il comune dell’Italia. Di nuovo, parlare per universali (l’Uomo, la Natura Umana, la Razza) è cadere in un vuoto astrattismo, lontano dalla verità dei fatti:
«Invece di portarci a stabilire un genere comune – stabile, definitivamente costituito, come se fosse caduto dal cielo, e che non siamo in grado di giustificare (l’”Uomo”, la “natura umana” o la “base comune”) -, un genere unitario, identitario, a partire dal quale la diversità delle culture si dispiegherebbe (come fa la Differenza), ecco che lo scarto ci situa immediatamente in una trasformazione, all’interno di una genesi e di un avvento»
Radici?
La cultura è sempre un tra, non fissabile. L’immagine che abbiamo usato prima, quella delle radici dantesche della nostra cultura, è falsa, perché di nuovo guarda ai confini di un evento e non alle sue risorse, alle sue potenzialità. «La radice ci fa deviare dalla rappresentazione storica». Parlare di radici del cristianesimo è fuorviante; meglio considerarne le risorse. Risorse che si misurano in base agli effetti, che non sono valori, cioè valori, cioè – di nuovo – imposizioni universali che fanno violenza all’altro. Le risorse non si possiedono, sono a disposizione.
Inventare l’identità culturale
Tutto questo nel libro di Jullien, che va letto e riletto perché offre una prospettiva intelligente su problemi che sentiamo vicini. Non abbiamo bisogno né di culturalismi né di relativismi pigri. Eric Hobsbawm, ormai molto tempo fa, ha mostrato che la Tradizione, quella con la T maiuscola, è semplicemente un’invenzione. Jullien fa lo stesso con l’identità culturale, che si rivela non un’invenzione, ma peggio: un bastone tra le ruote. «La cultura mira a debordare dalla chiusura del suo io quanto a evitare l’integrazione in un mondo». Non differenze, non abissi tra una cultura e l’altra, non ridurre l’altro a noi, ma scarti, tra, risorse, potenzialità. Comunque, pare suggerirci Jullien, la cosa difficile rimane sempre la stessa: riflettere.