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I racconti di Yawp – «Rose Connelly», di Lorenzo Salamone

10 minuti di lettura

Merry of soul he sailed on a day

Over the sea to Skye.

(R.L. Stevenson, Poesie)

 

Era un luglio freddo sull’isola di Skye. La luna piena faceva brillare le onde del Loch Snizort, intorno a Skeabost, isola nell’isola, lì dove l’insenatura del mare si stringeva come un fiordo e finiva per assottigliarsi in fiume tra due altissime pareti di basalto.

Erano andati su un vecchio molo a sussurrarsi cose all’orecchio, guardare le stelle e ascoltare i rumori dell’acqua. La frescura notturna pungeva i loro volti. Era bello come i loro sguardi sapessero ritrovarsi sempre, anche senza vedersi. Era bello sentire i respiri e i battiti l’uno contro la pelle dell’altro, petto a petto.

«Nell’indugio non c’è abbondanza», disse Rose. «Dovresti averlo imparato».

Lui era sdraiato dietro di lei, le carezzava il collo. Con dito pigro, disegnò un semicerchio su quella pelle di latte, scese lungo lo scollo della sua maglia, s’intromise fra le asole della sua blusa e senza sforzo la sbottonò. Col dorso della mano sentì il calore della sua pelle nuda.

«Di’ che ricorderai questo momento per sempre», disse lui.

Rose si voltò. «Cosa?»

«Questa vacanza, questo posto, io e te… di’ che lo ricorderai».

«Non controlliamo le cose che ricordiamo, ma farò uno sforzo».

Lui si guardò intorno senza dire altro. La costa frastagliata alta intorno a loro, gli sterpi di ginepro ed equiseto, le acque confuse dell’estuario che scorrevano sotto quel moletto. Tutto taceva, placato, tranne che per gli insetti e gli uccelli coi loro fiochi richiami che venivano dal fondale sognante della notte.

L’isola delle nebbie, la chiamavano, ma nebbie finora non ne avevano viste. Forse aveva ragione la loro guida del giorno scorso che aveva indicato loro le alte montagne all’interno. «Le nebbie più belle le trovate a Blath-Bheinn che ruotano, nuotano e cadono per le pendici dei monti».

Sarebbero andati a visitare le montagne più tardi, però. Tutto quello che lui cercava era la vista di quel mare bellicoso e plumbeo, grave come il volto di un guerriero.

Guardò il cielo notturno, pensoso, il suo animo mobile e fisso come quelle stelle.

Riconobbe subito il malinconico Saturno, chiarissimo quella notte, che brillava a occidente. Sarebbe bastato un binocolo per intravederne gli anelli. Quand’era giovane e appassionato d’astronomia aveva a lungo sognato di galleggiare sui suoi oceani d’idrogeno o di esplorare il suo titanico nucleo di ghiaccio grande quanto tutta la Terra oppure di vedere quei giganteschi anelli sovrastarlo mentre i suoi sessantaquattro satelliti s’inseguivano in cielo fulgidi come segugi in un mattino di caccia.

Spostandosi, il suo sguardo colse il Dragone snodarsi intorno all’Orsa Minore, indugiò per un poco sulla Grande Orsa e poi, verso oriente, scorse Perseo volare in salvo di Andromeda sotto il cui piede, presto, il corno dell’Ariete sarebbe stato visibile.

Alzò il braccio verso le stelle quasi per essere il più vicino possibile a quel vuoto che li sovrastava coi suoi alveari di astri fiammeggianti e pianeti in corsa. Il suo palmo aperto si agitò nell’aria. Sarebbe stato bello poter cancellare le stelle dalla notte come granelli di gesso da una lavagna ma mai bello quanto illudersi di poter dominare coi suoi polpastrelli quei soli lontani.

«Ci pensi a quanto sono lontane? A quanto lontano stai guardando nello spazio? Se ci pensi l’azzurro del giorno è contraffatto, un gioco di luci. Questo è il vero cielo. Stiamo guardando in un abisso profondo quanto il tempo stesso».

«No, quello che vedi è l’interno di una sfera di vetro, il cielo non è che un giocattolo. Sai quei mappamondi col cielo notturno stampato sopra invece dei continenti? O la volta dipinta di quel palazzo di Caprarola? Il cielo è un cosmico unisci-i-puntini, un trompe-l’œil».

Lui tacque.

«Che ti succede?»

«Perché?»

«Sei silenzioso».

«Ho deciso di diventarlo. Silenzioso, intendo. L’ultima volta che ho provato a dire qualcosa di serio, non ho saputo che dire».

«Sono cinque anni che non sei silenzioso», scherzò lei. Ma poi un pensiero le attraversò in volo il viso. Lui lo colse senza nemmeno pensare.

Il bello di loro due, in fondo, non era che questo: rendere le parole superflue, prevedersi e sorprendersi come farebbero due vecchi scacchisti dopo una vita di giocare insieme.

«Non preoccuparti», rise il ragazzo. «È solo che non ho voglia di fare discorsi profondi. Non stanotte».

«Tranquillo, non volevo farne. Ma non dovresti farti problemi a parlare con me».

«Non ho mai avuto problemi a parlare con te. Non starei con te se avessi problemi a parlarti. Sai che dovresti fare? Cantami quella canzone».

«Quale?»

«Lo sai quale mi piace. La conosci, dai», disse e le porse la sua chitarra, posata lì accanto.

Le baciò il collo. Lei sorrise e si mise a sedere. Rose amava particolarmente quella canzone, né la cantava per farlo contento. La cantava per il ponte che creava tra loro. Che partiva dalle sue corde vocali e finiva nel suo cuore. Non era troppo sicura di quante volte ancora avrebbe voluto o potuto cantargliela.

Prese la chitarra, posata accanto a lei, l’accordò e intonò il triste motivo:

Down in the willow garden,

where me and my true love did meet…

Il mattino dopo, camminavano tra le rovine della chiesa di San Colombano, resti di tombe e cappelle quasi inghiottite dalla terra e dal muschio, sotto un cielo ostinato di nuvole.

«Quella canzone che mi chiedi sempre di cantarti».

«Sì?»

Stavano osservando quelle strutture che il tempo aveva reso irriconoscibili. Lapidi illeggibili, pietre tombali tanto erose e ricoperte d’erba da sembrare semplici sassi. I sarcofagi recavano sui loro coperchi barbarici sagome appena sbozzate che non avevano più niente di umano.

«Perché ti piace così tanto? Parla di una ragazza che viene uccisa».

Quei ruderi sembravano esistere a caso, come elementi della natura, emersi dalla deriva dei secoli, pietre pronte a ritornare alle pietre. Il ragazzo continuava a osservare loro e non lei.

«È molto più di questo. È una canzone che racconta una storia e il nome della ragazza la regge tutta, come una chiave di volta. É ripetuto nel ritornello, in fine di rima», s’interruppe d’un fiato, preoccupato di annoiarla.

«Continua».

«Be’ le ballate sono trasmesse oralmente. Sono popolari, capisci? Ogni provincia od ogni tradizione ne ha una versione diversa, ognuno ne imparava una versione che poi insegnava a un altro, che la cambiava a sua volta. Ma il bello è questo: anche se il grosso del resto cambia, gli elementi essenziali non cambiano mai. Il ritornello è la parte che cambia di meno. Perché è quella che tutti si ricordano meglio. Lo sconosciuto che, dopo aver saputo di Rose, creò la ballata fece del suo nome il culmine del ritornello. La parte che cambia di meno della parte che cambia di meno. Lo mise in salvo, capisci?»

Rose tacque ma non per insofferenza. Era abbastanza onesta da dirgli quando non era un buon momento per i suoi sproloqui. Ma questo non era il caso. Mentre ascoltava, lo guardava con strani occhi, tristi e innamorati insieme. Il ragazzo esitò. Riconosceva la contentezza di quegli occhi, ma non sapeva immaginare con che tristezza fosse mescolata. Per un attimo avevano smesso di conoscersi.

Tacquero entrambi.

«Ti amo», disse lei alla fine, «ma mi fa paura sapere che non cambierai mai».

«Mi conosci, Rose. Io a evolvermi sono più lento dei minerali. Cambio allo stesso ritmo dei continenti. Ma cambio».

«Me l’hai già detta una cosa simile. Che se tu eri cocciuto come uno scoglio, io dovevo essere cocciuta quanto il mare che lo scolpisce».

«E che ne pensi?»

«Che sei bravo a parlare ma non puoi sempre cavartela con le parole. Usi queste grandi immagini poetiche e la metà delle volte mi stupisci. Ma l’altra metà non vuoi semplicemente farti capire. Perché non vuoi farti capire?»

«Bella domanda», disse lui seguendo le giravolte di un albatro in cielo.

I suoi occhi si spostarono su una tomba divorata dagli elementi. Forse un guerriero dell’estinto clan MacNeacail. Oppure un crociato sopravvissuto alle ardenti mura di Giaffa tornato a casa dalla Terra Santa. Chiunque egli fosse, ora un vitello sciolto brucava vicino alla sua bara. Altre mucche erano sparse sul prato, ignare dei morti. Il ragazzo guardò i loro grandi occhi placidi.

Soffiava un vento inquieto e debole, umido d’oceano.

Rose taceva.

«Secondo te perché amo così tanto quella canzone?»

«Il miracolo delle cose che restano l’hai chiamato una volta».

«Già… Il miracolo delle cose che restano. Il problema è: perché restano? Perché loro e non altre?»

«Forse quello che resta non è affatto speciale. Un po’ come l’unica cosa che ha di speciale il passato è che qualcuno ha deciso di raccontarlo».

«C’è comunque bellezza nel diventare, da uomini, memorie di uomini. Come i giovani fiorentini che Botticelli usava come modelli per i suoi angeli. Il loro volto è immortalato per sempre. Sono morti da secoli, eppure esistono ancora. Forse di più e meglio di tutti gli altri. Lo stesso la Rose della canzone. E lo stesso te, Rose. Io ti amo perché spero che un giorno sarai tutto ciò che mi resta, l’unica che tempo e cambiamento non potranno toccare».

«Ti amo anch’io ma devi scendere dalle nuvole. Non abbiamo bisogno di finire in un quadro per sapere che esistiamo. Esistiamo, punto. Qui e ora. Rose Connelly era solo una povera ragazza, che le importava di diventare una canzone? Se lo è diventata è stato a suo malgrado. E di sicuro non le ha fatto alcun bene».

«Il classico dilemma di Achille. Morire anonimi e vecchi o giovani e famosi?»

«Non penso a morire quando ancora ho da vivere».

«Pragmatica ragazza. Mi piace».

«Il punto di tutto questo discorso è che devi smettere di chiedermi di cantarti quella canzone. È inquietante e parla di morti ammazzati».

«Va bene, va bene. La prossima canzone che ti chiederò di cantarmi sarà la sigla dei Teletubbies. Contenta?»

Rose fece vagare lo sguardo distratto fra i rami della quercia, in silenzio, giù lungo il tronco fino al sepolcro medievale ai suoi piedi. A volte i sentimenti di lui le parevano altrettanto sigillati e impenetrabili.

«E promettimi che la prossima volta andiamo in un posto senza cadaveri. Mi porti sempre a visitare cimiteri e chiese».

«Un posto senza cadaveri, di solito, è sempre un mortorio. Se dentro non c’è morto qualcuno come faccio a sapere che è un posto importante?»

«Non preoccuparti, amore», disse Rose. «Il prossimo viaggio decido io».

Sedettero a terra, la schiena contro il tronco di un albero e le gambe stirate sull’erba. Rose poggiò la testa sulla sua spalla, a occhi chiusi. Lui appoggiò la propria testa alla sua illudendosi di essere più vicino a quei pensieri che gli volteggiavano dentro, leggeri come le farfalle o la neve.

Il vento si alzò, fischiando nell’erba alta. Lui si ritrovò a pensare alla solitudine del vento che soffia sul mare, a come per miglia e miglia non trovi nessun ostacolo e vada semplicemente per la sua strada sempre più forte e più freddo, fino a investire e raggelare la costa.

«Vorrei potere avere in mano l’universo», disse lui. «E avvolgere e svolgere il tempo per noi. Imbottigliarlo, magari, dentro a una fiala come un mago imprigionerebbe una fata. O come da piccoli imprigionavamo i film della televisione nelle videocassette… Conosci la rosa di Gerico?»

«Mai sentita».

«È una pianta del Medio Oriente che durante la stagione asciutta diventa una palla d’erba marrone. Brutta a vedersi ma lo fa per conservarsi. I suoi semi rimangono vivi per anni. Appena la rimetti in acqua, torna a riaprirsi, diventa verde di nuovo e sparge i suoi semi. Il giochetto si può ripetere per un bel po’ di volte finché la pianta non muore».

«Quindi?»

«La memoria degli uomini è il deserto, le canzoni sono rose di Gerico».

Rose scosse la testa. «Stiamo ancora parlando di quello?».

«Sono altre prove che al tempo si sopravvive».

Rose accennò alla tomba del guerriero. «Il nostro amico non mi sembra tanto sopravvissuto».

«Non c’è immortalità senza metamorfosi. Ciò che importa è sapere che lui c’è stato, che un uomo secoli fa è esistito».

«Non capisco perché ti preoccupi di queste cose. Non è più facile stare semplicemente al mondo e fare cose, non so, come organizzare barbecue, bere il latte dal cartone e uscire di casa senza rifare il letto?»

«Lo sai che non è igienico bere il latte dal cartone… E comunque il problema non è riempire il tempo, ma sconfiggerlo. Anche solo in potenza, anche solo per dire di essere stati qui. Perché credi che gli innamorati incidano il loro nome sulla corteccia degli alberi?»

«Che problemi ridicoli».

«Sono problemi più grandi della vita».

«Sono problemi di chi non ha una vita. E tu ce l’hai. Ora, per favore, possiamo andar via da questo cimitero?»

Erano in auto, adesso, lungo una strada piatta e taciturna. Una cupola di silenzio pareva calata sul mondo e non veniva un suono dal mondo, nell’abitacolo tutto taceva.

Alla loro destra il cielo, sempre più scuro, si spalancava su immani greggi di nuvole azzurre. Il freddo soffiava di nuovo dal mare, suscitando brividi a fior di pelle e tiepidi desideri di focolari, ciocchi crepitanti in un camino e pareti di solida pietra come armature contro la notte.

«Ho pensato una cosa su quel discorso», gli disse Rose continuando a guardare l’oscurità oltre il parabrezza.

«Quale discorso?»

«Quello sui ricordi».

«Spara».

«Ci ho pensato visitando quei ruderi di stamattina. Nessuno ha deciso cosa sarebbe dovuto sopravvivere della chiesa e della tomba del cavaliere. Quegli oggetti hanno resistito da soli. Tutto è crollato o si è inabissato ma le parti più salde o le più fortunate sono rimaste. La stessa cosa succede con i ricordi: li costruiamo nella nostra memoria e poi, come edifici, li abbandoniamo al tempo. E quali parti sopravvivono? Quelle costruite meglio».

Un sorriso apparve sulle labbra di lui

«Sei una donna saggia, Rose Connelly».

«Ammettilo cosa faresti senza di me?»

«Se non ti avessi verrei a cercarti».

Lei gli mostrò il tatuaggio sull’avambraccio. Una mano chiaroscurata che reggeva un cerchio bidimensionale, vuoto. Al di sotto la scritta latina: Simplicitas.

«Ecco quello che ti serve, semplicità. È tutto quello che provo a darti».

«E per fortuna tu ci sei. Una ragazza che ha lo stesso nome…»

«…di una ragazza uccisa in una canzone. Mio Dio, perché me lo ricordi sempre? Lo sai che è inquietante da dire? E comunque ho una cosa da dire pure su quella canzone».

«Cioè?»

«La tua malinconia sul destino di quella ragazza è immotivata. Se ascoltassi bene le parole ti renderesti conto che il fidanzato la uccide solo dopo averla drogata. Quindi in un certo senso Rose Connelly non si è nemmeno resa conto di stare per morire. È saltata dal sonno alla morte senza nemmeno capirlo. Di fatto, Rose Connelly è morta felice».

«Per questo mi piaci. Tu sei ottimista».

E continuarono a guidare nella sera.

 

 

Lorenzo Salamone

yawp

Il collettivo di Yawp nasce nel 2010 a Philadelphia in seguito all’approvazione della sovvenzione statale da parte dell’Istituto Anglo-americano di Umanistica, nell’ambito di un progetto di diffusione della cultura letteraria americana in Italia.
Da allora continua orgogliosamente la propria opera di diffusione e pubblicazione, vantando numerosi risultati raggiunti nel corso degli anni, tra cui il Burroughs Award nella categoria giovani e una menzione d’onore del vice presidente della commissione cultura al Senato degli Stati Uniti d’America Susan Collins.

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