È seduto su una sedia, con atteggiamento stitico, i muscoli a corda di violino. Comincia a sudare freddo. Sente qualche crampo nella pancia, ma non perché abbia la reale necessità di cacare. Qual è il suo problema? Muove le dita dei piedi dentro le scarpe e sente i tendini delle caviglie muoversi a loro volta sotto la pelle e i muscoli tesi, ha i muscoli tesi, tesi i muscoli, sono tesi, in tensione. Muove le dita dei piedi nelle scarpe. Si umetta le labbra con la lingua, con discrezione, elegante nel movimento che la punta della lingua compie su entrambe le labbra contemporaneamente. Si passa le dita della mano nei filamenti dei capelli, di nascosto. Ha le labbra secche, cazzo, le labbra secche. Forse deve cacare davvero. Le due cose non sono correlate.
Scusi, posso?
No.
Ma non è libero?
No, non vede che ci sono seduto io qui?
Ma io ho bisogno di sedermi. Ho molto bisogno di sedermi.
Non mi importa un cazzo.
Non sia così scortese, non ce n’è bisogno.
Forse deve cacare davvero. Questo vecchio che insiste per farsi lasciare il posto gli sta rompendo le palle, lo fa innervosire. L’autobus corre a tutta velocità sulla strada libera, non ci sono dossi o buche nell’asfalto quindi i sobbalzi del mezzo, che ha gli ammortizzatori danneggiati, non gli tormentano le budella con danze scostanti e sgraziate. Il vecchio continua a insistere.
Giovanotto, la prego.
Non mi interessa, vatti a sedere più in là. È pieno di sedili liberi, qui ci sono già seduto io.
Alza il tono della voce, non riesce più a trattenersi dalla voglia di togliersi quel vecchio da sotto gli occhi. Non sa cosa fare. Non sa se schiaffeggiarlo tanto forte da farlo cadere in terra, sul pavimento lurido del mezzo in movimento, o se cercare di usare le buone maniere per risolvere la situazione, che lo fa sentire così a disagio. È il vecchio che lo fa sentire a disagio o è il fatto che deve cacare? O è qualcos’altro? Non sa rispondere alla sua stessa domanda e, in fin dei conti, vuole davvero rispondere? Vuole solamente che quel vecchio si levi di mezzo, che scelga un altro posto dove poggiare il suo culo secco e rugoso così da lasciarlo in pace e smettere di farlo sentire a disagio con l’universo tutto.
Non guarda mai il vecchio in viso quando gli parla.
Gli torna in mente quel giorno in cui suo fratello uccise un gattino per puro divertimento. Ricorda di essere entrato in casa da scuola e aver visto il suo fratellino biondo, con gli occhi azzurri, grandi, che con gli occhi di fuori teneva a forza la testa di un gattino, che si agitava come se avesse le convulsioni, nell’acqua raccolta nel bidet, che era stato accuratamente disinfettato dalla madre la mattina dello stesso giorno. Suo fratello era solito passare il tempo con una vecchia babysitter, che però quel giorno non poteva essere presente.
Sotto lo sguardo scostante dei genitori, il figlio più piccolo della famiglia più rispettata del quartiere cominciò a sviluppare un certo gusto nell’uccidere piccoli animali indifesi, che attirava nel giardino di casa con ciò che trovava nel frigo o nella dispensa. Adorava sentire le urla di dolore e disperazione, i lamenti, lo schiocco delle ossa che si rompevano, il rumore dei corpi che si agitavano. Affogarli era il metodo migliore, durava di più, era più soddisfacente. Il figlio più grande della famiglia più rispettata del quartiere non disse mai niente ai suoi genitori, rivelò di aver beccato il suo fratellino a uccidere il piccolo gatto del vicino (non assistette mai all’assassinio del piccione tramortito e poi spiaccicato sotto i sandalini blu elettrico, non vide come un po’ di cervello dell’animale sporcò le dita dei piedi di suo fratello, che poi aveva accuratamente rimosso ogni traccia della brutale uccisione prima di rientrare in casa) solo quando un tribunale gli chiese di testimoniare contro di lui, che a dodici anni aveva ucciso la nonna con un paio di forbici da cucina e aveva poi fatto a pezzi il cadavere nel cortile del condominio sotto gli occhi della bambina del quarto piano e successivamente dell’inquilino del terzo piano del palazzo di fronte, che ci aveva messo almeno otto/nove minuti per capire cosa stesse facendo il nipote della vecchina che salutava sempre tutti quando usciva in balcone la mattina per innaffiare le piante. Lui non salutava mai.
Mi faccia sedere, non le costa niente cambiare posto. È libero, no?
Sta blaterando, si vada a sedere lì, vicino al finestrino.
Non posso, devo sedermi qui.
Mi lasci in pace, se ne vada.
Non posso, devo sedermi qui.
La sto pregando di smetterla di rompermi il cazzo e lo sto facendo gentilmente. Se ne vada, ho detto.
Non posso, devo sedermi qui.
“Non posso, devo sedermi qui”, no! Ho detto di andartene, vecchio del cazzo!
Comincia a sentire che la necessità di cacare si fa sempre maggiore, sente che deve calarsi i calzoni adesso e liberare le budella da tutte quelle scorie tossiche che ha raccolto e tenuto dentro di sé per tutto quel tempo, giorni, settimane, forse mesi. Si sente male, suda sempre di più, non sa più cosa fare. Deve levarsi di mezzo quel vecchio.
La prego.
Okay, vaffanculo, me ne vado. Prenditi questo posto di merda.
Si alza, si sorregge la pancia con le mani. Sente che potrebbe persino farla lì, al centro del corridoio dell’autobus. Il vecchio non fa una piega quando il posto si libera.
Siediti, vecchio. Mi hai rotto le palle per tutto questo tempo e ora non ti siedi?
Il vecchio indossa una coppola color mattone sulla testa ornata dai pochi capelli bianchi rimasti. La camicia azzurra ha le maniche corte, i bottoni piccoli, i pantaloni verde oliva sono risvoltati due volte. Ai piedi sandali, calzini bianchi lunghi fino al ginocchio. Si rende conto solo ora di quanto sia ridicola la maniera in cui quell’uomo è vestito. Si rende conto poi che ai suoi piedi ha un bastone da passeggio, che il vecchio ha fatto cadere prima che la loro conversazione iniziasse. Nessuno si accorge di nulla. Il vecchio pare entrato in uno strano stato di trance per cui continua a fissare il sedile vuoto, fermo immobile, non cede a nessun minimo sbandamento del pavimento causato dal fatto che si trova in un grande scatolone in movimento. Il labbro inferiore trema leggermente. Bisbiglia qualcosa di non udibile
Devosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevoseermiquidevosedermiidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermiquidevosedermi
Non si siede mai.
Si sente bene?
No, lei non capisce. Io devo sedermi proprio qui!
Non urli. Le serve aiuto?
Devo sedermi qui!
Il sedile è vuoto, entrambi sono in piedi. Il vecchio alza la voce, è stridula, si ingobbisce gradualmente fino a sembrare piegato in due. A libretto. Nessuno capisce cosa stia succedendo. Il bastone è ancora ai piedi di tutti.
Le serve aiuto?
Devo sedermi qui!
Le serve aiuto?
Devo sedermi qui!
Leserveaiutodevosedermiquileserveaiutodevosedermiquileserveaiutodevosedermiquileserveaiutodevosedermiquileserveaiutodevosedermiqui
Allora non le serve aiuto, è solo demenza senile.
Devo sedermi qui?
Le serve aiuto!
L’autista dell’autobus guida senza testa il suo mezzo senza carburante. Corre strisciando sulla superficie liscia della strada asfaltata, che si srotola senza problemi. Si guarda a sinistra, tutto libero. Si guarda a destra, tutto libero. Davanti? Anche. Dietro? Una bicicletta molto lontana che procede nella sua stessa direzione, con andatura tranquilla. La guida una bambina in mutande. Sua madre la guarda dal ciglio della strada e applaude felice. Un piccolo tour de France famigliare. L’autista continua la sua corsa accelerando, decelerando, accelerando, decelerando, senza crearsi problemi. Non ha problemi. Senza crearsi problemi. Non ha problemi. Tutta la strada è libera, nessun ostacolo. Nello specchietto retrovisore nota un piccolo movimento in fondo al corpo lungo della sua cavalcatura di latta, un vecchio urla ad un sedile vuoto, un ragazzo dà di matto e dopo poco si mette a cacare sul pavimento del mezzo, al centro del corridoio pieno di gente. Fantasmi annichiliti dal lavoro, dalla scuola, dall’università, dal capitalismo e dagli affetti, dalle feste comandate. L’autista senza testa continua a fissare la strada e non si preoccupa di ciò che gli succede intorno. Urla, sorride, si schiaffeggia e continua a guidare senza farsi problemi. Nessuno problema, se il lavoro non va ne troviamo un altro, nessun problema. Se la scuola non va la cambiamo, nessun problema. Se l’università non va facciamo la rinuncia agli studi, cambiamo facoltà, nessun cazzo di porca puttana di problema.
Guida tranquillo sulla strada liscia, prende una buca, si rompe un cerchione. L’autobus si ferma all’improvviso e non riparte più.
Sara Giudice