«Sa, è la prima volta che il mio piccolino si separa da me…»
«Stia tranquilla, signora Qualunque. Edoardo si troverà benissimo qui.»
La stronza cicalava da più di mezz’ora e Carlo cominciava ad averne fin sopra le palle; in più, faceva un caldo bestiale e quella grassona non la smetteva di sudare.
«Si dice che lei sia un bravissimo insegnante, signor Follia.»
“G.le signor Follia, i piani alti rifiutano la sua richiesta – ah-ah non se l’aspettava, eh? Lei è uno schiavo eccellente, un lavoratore ineccepibile, un negriero moderno sopra una banchina di pesci miserabili, si sarà detto ‘quella cattedra di francese spetta a me, ora che il vecchio è crepato’. Ma vede, signor Follia, l’umano è un essere debole e insicuro, e di conseguenza, cosa vuole, meschino. Inoltre, lei non ha considerato la gerarchia sociale, i giochi di potere e quanto dagli stessi ne deriva; lei non ha considerato che la decisione non spetta ad altri che a me, suo superiore e pertanto padrone, e la mia decisione è che lei si fotta, signor Follia.”
Cordialmente,
Il Rettore
«Maestro.»
«Cosa?»
La donna teneva il figlioletto in braccio; quello taceva, forse assopito dalla calura.
«Questo è un nido, signora.»
Quella stessa mattina, aveva incontrato il nuovo docente ordinario di letteratura francese – Roberto.
«Affronteremo Sartre, oggi, sei invidioso?» gli aveva detto in risposta, dopo i convenevoli e conseguente stretta di mano e pezzo di merda e anche ignorante iniziali da parte di Carlo, il quale in cuor suo sentiva la rabbia mescergli l’animo, sotto il sorrisetto beffardo e inferiore di superiorità che gli andava colmando il volto fascinoso di un uomo sulla quarantina, insegnante presso l’asilo nido dell’Ateneo La Sapienza di Roma.
“Sartre? Sartre! Se solo fosse vivo, ti sputerebbe in un occhio” avrebbe voluto rispondergli.
«Sono un maestro.»
“Buon lavoro, Roberto” aveva detto, andandosene.
«Gli insegnanti siete voi altri.»
«Quisquilie lessicali, signor Follia. Maestro? Insegnante? Cosa vuole che cambi?»
“Più di tutto, mi dispiace per quei ragazzi. Non impareranno nulla“, pensò Carlo Follia.
«Lei insegna, come tutti noi. Questo è quanto.»
“Una cattedra sprecata.”
«E poi, noi insegnanti» il tono gutturale con cui, quel volto pieno di pori, sottolineò la parola “insegnanti”, sapeva a Carlo di beffa a se stesso: «Ci sentiamo molto più tranquilli nel sapere che i nostri piccini si trovano qui, nel nido dell’ateneo».
Una goccia di sudore precipitò dalla fronte della cicciona sopra il naso del bambino. Carlo era disgustato.
“Edoardo Qualunque. Che nome di merda. Avrebbe potuto chiamarlo Swann“.
«Sa camminare?» chiese.
«Oh, si! Ha imparato da qualche mese, ormai. Ma vede, adora starsene in braccio alla sua mamma, vero, piccolino?»
La faccia lardosa della donna si strofinò contro quella del bambino, sudore contro pelle candida.
“Povero Cristo” pensò Carlo.
«Ora devo proprio andare, signor Follia.»
La donna poggiò il bambino a terra.
«Ho una lezione di economia politica, i ragazzi mi aspettano. Fai ciao alla mamma, Edoardo!»
Il marmocchio non si mosse; guardava la madre con fare trasognato.
«È molto vivace! Non si lasci ingannare… si è appena svegliato. Arrivederci, signor Follia.»
«Au revoir!» rispose Carlo, prendendo il bambino per mano.
“È soffice” pensò.
«Ti chiamerò Swann» gli disse infine: «Vieni.»
Carlo richiuse la porta dell’aula alle sue spalle.
«Coraggio, non ti mangio mica!»
Una masnada di bambini; alcuni giocavano a terra, altri si rincorrevano, altri ancora gattonavano.
“Dovevi startene bello largo nell’utero della cicciona, eh? Qui, del resto, starai un po’ stretto: così è il mondo” pensava Carlo Follia, mentre se ne rimaneva ritto in piedi dietro Edoardo, con le mani poggiate sulle sue spalle.
«La festa è finita, bambocci! Su, qui in circolo.»
I bambini, frettolosamente, lasciarono perdere quello che stavano facendo e si disposero in cerchio, un cerchio maniacalmente geometrico; Carlo Follia ne era il centro.
«Sbrigati, Guy!»
Un pargoletto con il ciuccio in bocca gattonò vicino agli altri compagni.
«Cacciatore Volt, ci siamo tutti?»
Un bambino con degli occhialetti tondi si alzò in piedi.
“Ha tre anni e sa già contare” pensò Carlo soddisfatto.
«Dodici, Maestro!»
«Chi manca?»
«Paul.»
“È in galera.”
«Ha la febbre.»
«Grazie, Cacciatore Volt.»
Il bambino si sedette di nuovo.
«Questo è Swann» disse Carlo, spingendo leggermente il nuovo arrivato in avanti; Edoardo arrossì.
«Cacciatore Arthur, ti dispiacerebbe spiegare a Swann, qui presente, chi siamo?»
Un bambino dai capelli arruffati si alzò in piedi.
«Noi siamo i Cacciatori del Tempo.»
«Grazie, Cacciatore Arthur. Hai capito, Swann? Noi siamo i Cacciatori del Tempo. E adesso, da bravo, vatti a sedere.»
Edoardo, in silenzio, si avvicinò ad una bimbetta di nome Jeanne e si sedette in terra, accanto a lei.
“Allora non sei del tutto scemo, ragazzo” pensò Carlo Follia.
«Si comincia, ragazzi!»
***
Prof. Stusi Roberto – “In modo grossolano, si è portati a credere che la filosofia esistenzialista corrisponda ad una condizione di apatia o, secondo altri , di atarassia. In effetti, molti dei personaggi sartriani sono bloccati nell’una o nell’altra condizione d’essere. Nauseati dalla vita, questi individui si lasciano trasportare dagli eventi e il loro agire è muto.“L’essere è il nulla”… vedete ragazzi, con questa frase Sartre non intendeva dire che l’armonia è impossibile, no! Tutto il contrario. In una realtà priva di un qualsiasi senso trascendentale, è l’agire a renderci liberi, tutto, insomma, dipende esattamente da noi. Nulla ci condiziona, nessuna causa prima ci sospinge a muoverci, è tutto nelle nostre mani. Ne consegue che l’astrazione volontaria, o meglio, l’isolamento intellettuale, il rifuggire la realtà perché ne siamo disgustati, tutto questo, ragazzi, corrisponde alla morte e la morte, ragazzi, corrisponde a…”
Un tonfo, la porta dell’aula sbatté, un gruppo di studenti scelse la via della luce.
***
“Sono all’inferno”.
La gamba di una sedia bruciava lentamente nel camino, il resto era cenere.
Follia: “Si muore dal caldo, Carlo”.
Era sera, Carlo Follia sedeva sulla poltrona di classici russi, scrutando quell’avvilupparsi di fiamme.
“Era l’ultima… da domani dovrò cominciare con i libri, se voglio ancora la luce” pensò.
Il braccio destro poggiava sulla biografia di Dostoevskij, di un certo Marc Slonim.
Follia: “Ma in fondo, la vuoi davvero, la luce?”
Tutto il bracciolo era un’insieme di libri. A dire il vero, nel suo significato maggiormente letterale, l’intera abitazione si presentava come un insieme di libri; pian, piano, in un’operazione di perfetta simmetria, quelli erano andati sostituendo la mobilia e la mobilia, durante il corso degli eventi, la legna del camino. Una piccola scintilla cadde sul pavimento e Carlo Follia la schiacciò con la suola.
Il giocatore, Le notti bianche, Memorie dal sottosuolo…
“E se avessero ragione?”
…I demoni.
“In fondo, molti di loro non hanno neanche compiuto i quattro anni…”
Pensò a Neal Cassady, trovato morto lungo i binari della ferrovia, assiderato, e anche all’amaro fatto che doveva ancora preparare la lezione per il giorno successivo, il fuoco ardeva, non era rimasto molto tempo, né materiali disponibili; l’ansia andava generandosi – la gamba della sedia scoppiettava, crepitava a tratti assorbendo la luce, emanandola interamente sulle pareti della stanza, disegnando ombre, disgregando ombre; poi, quando la fiamma aveva già divorato un intero pezzo del legno e, spegnendosi per brevi attimi, si andava spostando, come un serpente che ingoia un corpo elefantesco, per riprendere subito maggior vigore sulla porzione successiva, il fuoco pareva irrorare l’abitazione come di una luce a strobo.
“Sono all’inferno e si muore dal caldo.”
Si alzò dalla poltrona e si diresse a tentoni verso l’altro capo della stanza. Qui, giaceva un piccolo mucchietto di libri e sopra, una bottiglia di Merlot già aperta, l’ultima.
Cercò un bicchiere e lo trovò sopra un Fitzgerald, nella penombra. Lo riempì fino all’orlo, poi scaraventò la bottiglia vuota contro il muro.
Sorrise.
“Mi è andata bene” pensò, “un bicchiere intero.”
Guardò il mobiletto di sbieco, attraverso la penombra. Kerouac, Hemingway, Bukowski, Faulkner, Hunter Thompson, Truman Capote, James Joyce, Dorothy Parker. Strinse il bicchiere di vino con un orgoglioso disgusto.
«A voi!» disse, bevve.
“E ora, al lavoro.”
Tornò a sedersi, poggiando il bicchiere già semi-vuoto sopra Resurrezione. Ai piedi della poltrona, vicino ad un Puskin, giaceva Marcel Proust.
Follia: “I Cacciatori del Tempo!
Che bella trovata hai avuto…”
Carlo Follia si chinò, colse dal pavimento il materiale del suo lavoro: All’ombra delle fanciulle in fiore. Ne sfogliò alcune pagine – aveva preso l’abitudine di sottolineare a matita i punti focali dei romanzi che leggeva; il suo sguardo si fermò, improvvisamente, sopra una pagina, rimarcata per intero. In fondo alla stessa, una firma in rosso carne, improvvisata con la punta di un rossetto:
Gilberte…
Si sentì il cuore stretto da una morsa e saltò subito, e in modo del tutto casuale, a duecento pagine avanti. Qui, in alto, aveva appuntato: solitudine di Marcel all’Hotel di Balbec.
Bevve un profondo sorso di vino, poi cominciò a leggere qualche riga.
Pian, piano, però, il fuoco stava morendo, finché leggere non divenne del tutto impossibile.
Carlo Follia sospirò, poggiò il libro di nuovo in terra e si alzò, portando con sé il bicchiere, ora pieno per metà; si diresse verso il suo letto, un materasso fatto di maudits e classici americani e ci si lasciò cadere sopra.
“Vorrà dire che domani improvviserò, per quello che ricordo” pensò.
Un libro lo infastidiva, premendogli sul fianco; Carlo lo prese e lo lanciò via. Foglie d’erba percorse l’intera stanza, per poi incontrare il muro.
Intorno a Carlo ora, era il buio.
“Sono appena le nove di sera.”
Tracannò quanto rimaneva del vino, poi si adagiò disteso sul letto – il materasso era duro, ma ormai Carlo ci aveva preso l’abitudine.
Si mise ad osservare il soffitto, poggiando la testa sul cuscino che aveva assemblato con i romanzi di Jack London e alcuni scritti di Von Kleist – quest’ultimo, Carlo lo amava per simpatia perché si era buttato da un ponte, semplicemente.
“Be, almeno Dalla parte di Swann è fatta. Vorrei solo sapere se sta funzionando…”
D’un tratto, prepotentemente, Carlo Follia fu nuovamente assalito da quel pensiero.
Carlo: “Gilberte…”
Follia:”Gilberte…”
Si alzò di scatto, il cuore gli faceva male, pulsava ricordi. Senza vedere nulla, cominciò a tastare il pavimento, a gattoni, finché non ritrovò il libro che aveva lasciato ai piedi della poltrona.
“Dov’è, dannazione, dov’è!”
Prese a sfogliarlo in modo compulsivo – sapeva a memoria dove fosse quel pensiero, tra i margini bianchi all’inizio della Prefazione, ma quel sapere era ora venuto meno, il ricordo era come un’agitazione accecante, una frenesia bianca; scorse infine la pagina che cercava, senza però riuscire a leggere nulla; la luce divenne improvvisamente qualcosa di necessario. Si avvicinò al camino, con il libro in mano; gli ultimi bracieri cocevano lentamente, emanando un albore fioco.
Puntandosi il libro davanti agli occhi, avvicinò la testa completamente dentro il basamento; sentì un calore tiepido sul viso, la manica della giacca sporca di fuliggine, le iridi riflettevano i tizzoni ardenti, che si agitavano nella pupilla nera, e finalmente la vide – tra le pagine sbiadite c’era una dedica, dai tratti delicati, la dedica sanguigna di un’anima:
“A Marcel,
affinché il nostro Amore, che un giorno morirà, divenga immortale, nel tuo ricordo di me.
La tua, Gilberte”.
Carlo Follia, tremante, si lasciò cadere all’indietro e, nel buio della sua stanza, stringendo a sé il libro, gridò, straziato da quel ricordo, mentre delle lacrime dense cominciarono a scendergli giù per le guance.
“Sono all’inferno e tu dove sei?”
Questo racconto è stato estratto dalla raccolta Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (2016) per gentile concessione dell’autore.