C’è una certa tensione nell’aria a Lugano, uno stato di opprimente imbarazzo che coinvolge turisti e residenti in una sorta di comune sdegno. Non ci vuole molto, infatti, mentre si passeggia per le curatissime strade della città, a imbattersi in uno dei manifesti anti accattonaggio che, ormai da due anni, compaiono e scompaiono nei luoghi più trafficati e affollati. Spesso staccati o imbrattati, continuano ad essere affissi, a spiccare con i loro colori cupi sulle pareti di stazioni o lungo i muri delle abitazioni del centro.
Pur non facendo alcun esplicito riferimento all’etnia rom, il manifesto mostra un bambino che appartiene evidentemente a quell’etnia e invita a non donargli nulla per evitare il rafforzamento della criminalità. Il bambino, dalla carnagione olivastra, tende la mano all’osservatore: un’immagine innocente se, su di lui, non incombesse l’inquietante ombra della scritta che lo sovrasta e gli occhi rabbiosi di un criminale col passamontagna che mettono in correlazione il suo status sociale e la sua origine etnica alla criminalità organizzata.
In realtà, politiche anti accattonaggio sono state adottate non solo a Lugano e nel resto della Svizzera, ma anche in altre città europee. Il fine ufficiale è quello di combattere la criminalità, ma l’intento non detto è anche il più effimero scopo estetico: l’eliminare, per turisti e residenti, la visione di chi chiede l’elemosina nonché il fastidio della richiesta, a volte discreta, a volte meno, di un’offerta di denaro. Un fenomeno che, agli occhi di molte istituzioni, sottrae alla città l’adorato primato del decoro.
Non sempre questi provvedimenti sono illegittimi: a volte la loro portata è utile a una sicurezza comune che va comunque tutelata. Come sempre, però, il pericolo di uscire dagli argini del senso di umanità è dietro l’angolo. In nome di una presunta giustizia, cui si fa appello come un dogma sacro, si perde la misura, si sfocia nella perdita di umanità e nel razzismo.
Un’immagine non racconta solo un messaggio statico, ma riporta una storia, un grande e profondo “non detto” che sovrasta ogni limite figurativo. E, in questo caso, i manifesti anti accattonaggio di Lugano riportano una storia di uguaglianza e umanità negate: condannare, seppur in via indiretta, un bambino rom al ruolo di veicolo di criminalità, altro non è se non razzismo. È razzismo questa presunzione di malevolenza intrinseca, questa voglia di benessere che calpesta il buon gusto e schiaccia anche la bellezza dell’infanzia. Ci hanno provato in molti a contestare l’affissione di questi manifesti, ma altrettanti hanno dato il benestare alla loro permanenza.
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È un colpo al cuore ammirare Lugano, la sua bellezza sottile che sfila lungo l’eleganza dell’architettura fino ad aprirsi nello splendore naturale del lago, e cedere improvvisamente alle bruttezze dell’umanità. È una contraddizione troppo forte da sopportare con indifferenza. Si sopporterebbe più felicemente l’insistente richiesta di una moneta da parte di un bambino.ù
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