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Hong Kong, una protesta in bilico tra pacifismo e violenza

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3 minuti di lettura

«Give me democracy or give me death» è il grido che rimbalza sui muri di Hong Kong, impresso in nero come il nero dei caschi e dei passamontagna dei giovani che da mesi invadono le vie della città. Al di là di quelle maschere, degli occhi, dei volti, mille storie e percorsi diversi capaci di incontrarsi di fronte ad un ideale comune e nel ricordo ribelle della tragica vicenda di Piazza Tienanmen.

Li hanno ribattezzati i coraggiosi, quegli uomini in prima linea di un movimento di protesta sempre più organizzato, dei giovani radicalizzati che non esitano a rispondere agli attacchi della polizia con ulteriore aggressività. Eppure, la battaglia dei cittadini di Hong Kong è sfociata nella violenza solo in tempi recenti, dopo mesi di cortei pacifici.

Come si è arrivati, allora, a una protesta bifronte in cui a marce pacifiche si alternano episodi violenti di occupazione di luoghi pubblici e istituzionali, come il Parlamento e l’aeroporto? Facciamo un passo indietro per capirlo.

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L’aeroporto di Hong Kong ha ripreso la sua quotidiana attività, ma continua il sit-in dei contestatori che assicurano: «Non smetteremo di lottare contro la morsa di Pechino».

Equilibri storici minacciati dal presente

È il 1997 quando Hong Kong, storica colonia britannica, passa sotto la supervisione cinese, diventando una regione amministrativa speciale con un certo grado di indipendenza, soprattutto legislativa, secondo il modello One Country, Two SystemsÈ, tuttavia, questo principio di autonomia normativa ad essere stato intaccato dalla Cina con un decreto legge sull’estradizione datato al febbraio 2019 e promosso dal Capo dell’esecutivo locale, Carrie Lam, molto vicina a Xi Jinping

La proposta di legge prende le mosse da un fatto di cronaca, quando uno studente originario della regione commise un omicidio a Taiwan per poi rientrare ad Hong Kong; a causa dell’assenza di regole in materia, non poté essere estradato sull’isola né giudicato dalle autorità di Taipei per il crimine commesso. Con tale emendamento – la cui finalità principale, evocata da Pechino, consisterebbe nell’evitare di trasformare Hong Kong in un covo di criminali – l’estradizione di un indagato potrà invece essere richiesta per i reati più gravi, come l’omicidio.

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Oltre al timore per la perdita di indipendenza del sistema giudiziario locale, il principale motivo di apprensione dei cittadini risiede nella possibilità di essere estradati in Cina e venirvi giudicati.

E le differenze tra i due sistemi giudiziari non sono trascurabili; per prima cosa, la pena di morte, che nella Cina continentale è ancora in vigore, ad Hong Kong è stata abolita nel 1993. Con l’integrazione (parziale) nella dittatura cinese dell’ex colonia britannica, la certezza della tutela dei diritti fondamentali si è a dir poco incrinata e altamente plausibile è l’evenienza che la legge, una volta approvata, possa essere sfruttata con scioltezza contro dissidenti politici e persone innocenti inventando dei capi d’accusa.

Oggi è chiamata Umbrella Square, la zona simbolo delle proteste pro-democrazia del 2014 guidate dal movimento Occupy Central.

La dura lotta per la democrazia

Nel settembre 2014, la Rivoluzione degli ombrelli aveva iniziato a turbare il sonno del governo di Pechino e le azioni di disobbedienza civile del movimento Occupy Central with Love and Peace avevano portato, dopo 79 giorni di occupazione, alla concessione del suffragio universale e all’elezione del capo dell’esecutivo della Regione Speciale.

«Il nostro obiettivo finale è la democrazia» ripete ancora oggi Joshua Wung, uno degli attivisti del Movimento degli ombrelli. Da poco rilasciato di prigione, lo studente si è subito unito alla protesta, pur condannando le frange più violente che minacciano l’esito stesso delle contestazioni, rischiando di far cadere genericamente tutti i manifestanti dalla parte del torto.

«Ora Pechino ha una scusa per essere ancora più intransigente» commenta l’analista politico Jean-Pierre Cabestan «Ma deve comprendere che solo la negoziazione può porre fine alla crisi».

Slogan pro-UK e la Union Jack sono tornati a riempire le vie della metropoli asiatica.

Nonostante abbia momentaneamente sospeso la proposta di legge, la leader Carrie Lam ha ormai perso la fiducia della popolazione, ma non ha accolto le insistenti richieste di dimissioni. Le sue lacrime in diretta tv – nell’assicurare che la legge sull’estradizione non sarebbe stato il primo passo di un inglobamento totale della regione da parte della Cina – non hanno intenerito i concittadini e nei cortei è addirittura tornata a sventolare qualche bandiera britannica. Ad inasprire la tensione si è aggiunta la consapevolezza che i media della Cina continentale, sottoposti al regime, hanno diffuso informazioni scorrette e confuse circa le proteste, alimentando la disapprovazione nei confronti dei contestatori. 

L’aver bloccato l’iter della proposta di legge non ha fermato le manifestazioni che vanno ben oltre il semplice provvedimento normativo. La posta in gioco è troppo alta, riguarda la libertà, il futuro di questa regione ormai abituata ad uno status privilegiato rispetto al resto della Cina – già per la sola possibilità di scioperare.

Per la fiera Hong Kong, l’omologazione all’entroterra, anche graduale, sarebbe una prospettiva insopportabile. «Give us democracy or give us death». Un messaggio inequivocabile.  

Jennifer Marie Collavo

Nata nel '96 ma del secolo sbagliato, cresciuta in una famiglia multiculturale e multilingue. Una laurea in Conservazione e gestione dei beni culturali ed un'insopprimibile passione per tutto ciò che è antico, enigmatico e che esce dall'ordinario. Ama follemente i cipressi, Napoleone, la spumosa schiuma della birra e i viaggi on the road.

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