Nel corso dell’ottava lezione dell’anno 1938-1939 del suo seminario su Hegel, Alexandre Kojève menziona, indicandolo quale fondamento della propria analisi, un articolo scritto dal filosofo, connazionale e amico, Alexandre Koyré, apparso pochi anni prima, nel 1935, sulla Revue d’histoire et de philosophie religieuse. Si tratta, scrive Kojève, di «un articolo decisivo, che sta all’origine e alla base della mia interpretazione della PhG [Fenomenologia dello spirito]»[1]. Alexandre Koyré, difatti, trasse dall’analisi della Realphilosophie sviluppata nei suoi corsi, l’importante saggio Hegel à Jena[2], nel quale veniva affrontata la problematica della temporalità nella filosofia di Hegel prendendo come riferimento i testi hegeliani pubblicati nel periodo jenese, a cavallo tra gli inizi del secolo Diciannovesimo e gli anni immediatamente precedenti alla redazione della Fenomenologia dello spirito.
Il saggio di Koyré s’inserisce nel contesto della cosiddetta Hegel Renaissance, facendo un altro passo in direzione del recupero del filosofo tedesco letto in chiave “concreta” tipico di questo momento dell’avventura hegeliana in Francia. Agli occhi degli interpreti della Renaissance, Hegel si rivelava come il pensatore capace non solo di definire il ritratto antropogenetico dell’uomo del Ventesimo secolo, ma anche di portare il pensiero politico a fare i conti con i problemi della società, dell’alienazione e della libertà umane.
Alexandre Koyré, tuttavia, non si limitava a ciò, poiché proprio di questa ricezione francese di Hegel egli metteva in discussione uno dei capisaldi, ovvero la preminenza accordata alla fase giovanile della speculazione hegeliana, sulla quale Jean Wahl aveva costruito la propria immagine dello Hegel religioso e rivoluzionario, panteista e vitalista, contrapponendola a quella da lui considerata arida e astratta degli scritti sistematici. Il nucleo della tesi di Koyré, invece, è che il vero centro della filosofia hegeliana debba essere ricercato nei testi redatti dal pensatore tedesco durante il periodo jenese negli anni a cavallo tra il 1801 e il 1805. Questo periodo costituisce l’autentico «laboratorio del filosofo»[3], il momento determinante nell’evoluzione complessiva del suo pensiero, del quale gli scritti giovanili sono solo il prodromo.
Ora, la posizione di Alexandre Koyré è che sia necessario guardare dietro alle parti più obsolete e superate contenute nelle opere di Jena per rintracciare in esse il nerbo del pensiero hegeliano. Tale nerbo è individuato dal filosofo russo nel tentativo di Hegel di concettualizzare la struttura della dialettica specularmente al movimento della temporalità, il cui modello concettuale sarebbe il rapporto tra finitezza e infinità, ovvero l’«incessante divenire altro da sé del finito nell’infinito». Dialettica e temporalità sono due facce della stessa medaglia: entrambe si costituiscono come una dinamica “irrequieta” tale per cui l’elemento del finito essendo “instabile”, aspira all’infinito attraverso la negazione e l’autosoppresione di sé, «ponendo necessariamente quel contrario da cui è “de-finita”, “de-limitata”, “de-terminata” […e] negando necessariamente questo limite […]»[4].
A questo punto Alexandre Koyré compie un passo decisivo, introducendo una distinzione fondamentale, ovvero quella tra ciò che potremmo definire un “tempo della natura” e ciò che invece potremmo definire un “tempo dell’”uomo”.
La costituzione del tempo così come descritta nei passaggi precedenti, non rappresenta, scrive Koyré, «un’analisi della nozione (astratta) del tempo (astratto), di quel tempo della fisica, tempo newtoniano, il tempo […] delle formule e degli orologi». E aggiunge in nota, precisando: «questo tempo è spazio. O, come dirà in seguito Hegel, il tempo della natura non è che ora, Jetz». Esiste un tempo della natura, che è spazio, ossia un’ora che si prolunga nell’eternità, senza mai scostarsi dalla dimensione istantanea. Il tempo della natura è pura esteriorità, o, ancora, un’”esternità astratta”, che mai si concretizza nel tempo, al di fuori della durata.
All’idea di un tempo della natura, Alexandre Koyré oppone il «tempo “stesso”, [il tempo] della realtà spirituale del tempo. Questo tempo non scorre uniformemente […] È arricchimento, vita, vittoria. È esso stesso spirito e concetto». È in quest’ultimo tempo che, a ben vedere, si «realizza» la dialettica dell’infinito. Se il tempo della natura «è eternità astratta atemporale, separata dal concreto», affinché la dialettica dell’infinito divenga reale, «bisogna che si realizzi anche il suo altro, o, opposto, o contrario».
Ed è qui che compare quanto più sopra abbiamo denominato “tempo dell’uomo”, che rappresenta la dimensione autentica e concreta della temporalità, quella che Koyré ha descritto di riflesso al movimento dialettico di finito e infinito: «il tempo […] si costituisce in noi e per noi [ossia per l’uomo] a partire dall’”ora”. E quest’”ora”, che non è, ancora una volta un limite “fra” qualcosa e qualcos’altro, ma in qualche modo il limite in sé […] è essenzialmente instabile, inafferrabile e perituro»[5]. In esso l’”ora” è da subito negato, soppresso, e da subito sostituito con e ri-presentato in un altro ora. Ma questo ora, che già non è più tale, questo ora, che è riflesso e realizzazione del movimento dialettico di trapassamento del finito nell’infinito, non si perde sprofondandosi nel pozzo del passato, ma è «diretto […] verso il futuro. È proprio questo futuro che ci si presenta dapprima come “a-venire”, ricacciando verso il “non è più” quel che per noi era “ora”»[6].
L’ora si autonega giacché l’ora futuro, il non ancora, preme su di esso per spingerlo nel passato, e lasciare il posto ad un altro ora. Utilizzando i termini di Alexandre Koyré si può dire che l’”a-venire” trasforma l’”ora” in un “non più”. Si ha qui descritto il «flusso concreto della vita spirituale», con la preminenza del momento del futuro, dell’a-venire, nella dialettica della temporalità. I tre momenti del tempo, dunque, sono ora (presente), futuro e già stato; essi si coordinano e richiamano l’un l’altro, e l’istante, che è, per così dire, l’elemento ultimo di questa complessa dinamica, possiede quindi una struttura fondata sulla preminenza dell’a-venire. Questa è la cifra dell’interpretazione di Hegel avanzata da Koyré: la dialettica della temporalità viene interpretata alla stregua di un movimento di negazione dell’ora nella spinta dinamica ricevuta dall’a-venire, con il passato che funge da riserva degli “ora” sempre di nuovo recuperati nel presente.
Ora, il primato del futuro o dell’a-venire, che pareva trovare la propria intelligibilità senza alcun riferimento di tipo antropologico, viene ricondotto da Alexandre Koyré entro la dimensione dell’umano. È nell’attesa, nella speranza, nel rimpianto – ossia nell’orizzonte comprensivo entro il quale si dona il futuro nel e per l’uomo, che il tempo si costituisce dialetticamente; è perché l’uomo nega ogni volta il presenta nell’attesa del futuro, e dunque rinnega l’ora sospingendolo nel passato, che il tempo trova la sua genesi. Si potrebbe addirittura sostenere, senza peraltro discostarsi dalla lettera del testo, che Koyré non stia qui parlando del tempo, ma dell’uomo; o meglio, del tempo a partire dall’uomo.
Da un lato, dunque, Alexandre Koyré definisce l’uomo da un punto di vista essenzialistico. È nell’essenza dell’uomo, esistere solo in quanto trasformatore del futuro nell’ora; questa trasformazione, che si realizza concretamente nel tono emotivo dell’attesa e della speranza, è “negazione” – giacché così facendo l’uomo nega il presente, l’ora, in vista di un futuro che ha davanti a sé. L’uomo è dunque “progetto”: egli vive per il futuro cercando in esso la sua propria verità. Dall’altro lato, Koyré introduce l’elemento della “finitezza” quale secondo tratto costitutivo dell’essere umano: l’uomo cessa di esistere nell’attimo in cui questa dinamica progettante si esaurisce. Fa qui la sua comparsa, senza trovare un vero e proprio sviluppo, un tema centrale, come si vedrà, anche nel sistema di Alexandre Kojève, ovvero il tema della morte.
Questa doppia caratterizzazione ha quindi un ruolo cruciale nell’analisi svolta da Koyré. Essa gli consente d’introdurre, sul finire del periodo esaminato, l’elemento della storia. Il movimento dialettico della negazione del presente nell’a-venire futuro non si produce nella forma della mera ripetizione, ma è un movimento, si potrebbe dire, di accrescimento e amplificazione: il presente è ogni volta reso più complesso dal suo opporsi a ciò che lo nega sospingendolo nel passato.
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Appoggiandosi ad una frase appuntata da Hegel in margine al testo commentato, «Geist ist Zeit», Koyré aggiunge alla sua analisi: «lo spirito hegeliano è tempo e il tempo hegeliano è spirito»[7]. Nel suo avanzare incessante e ritornare su di sé, il presente dell’”ora” si accresce estendendosi, e si accresce estendendosi – in questo stesso processo – il divenire dello spirito, ossia l’autocoscienza. Ecco dunque perché il tempo umano è storico, essendo la storia nient’altro che l’”arricchimento dello spirito”.
Il tempo umano – la storia – non è semplicemente giustapposto al tempo della natura, a quel tempo che, in quanto esteriorità pura e Jetz dello spazio, resta sempre identico a sé. Il tempo umano invece sorge all’interno del tempo della natura, e inserisce in esso l’elemento differenziante: «è in rapporto all’indifferenza del puro molteplice che si costituisce ormai, nella e attraverso la differenziazione, il movimento dialettico del tempo». Il tempo umano è come un cuneo che frattura dal suo interno, inserendovi l’irrequietezza dialettica della temporalità, il tempo della natura. Ecco perché, come più avanti dirà Kojève, la natura non ha storia: essa riposa in un eterno e astratto presente; di storia, invece, si può parlare solo in relazione all’uomo, che negando l’ora in vista del futuro, la produce.
Dati questi elementi, Alexandre Koyré conclude constatando il fallimento del tentativo hegeliano di concettualizzazione del tempo. Se il tempo, difatti, si costituisce a partire dal futuro, esso non può che rimanere incompiuto in eterno: compiendosi, infatti, perderebbe il suo carattere propriamente umano e dialettico, per ricadere nella dimensione naturale dell’esteriorità. L’apertura al futuro del movimento dialettico ne mantiene la continuità, ma insieme lo costringe ad un ritorno infinito su di sé. Tale «dover-essere»[8] dell’apertura del tempo ne impedisce in questo modo la chiusura. Tentare di racchiuderlo entro le maglie di un sistema è stato il grandioso ma fallimentare obiettivo della filosofia hegeliana. Ecco il paradosso: «la filosofia della storia, e – quindi – la filosofia hegeliana, il “sistema”, sarebbero possibili solo se la storia fosse terminata, se non ci fosse più futuro, se il tempo potesse fermarsi»[9]. Fa qui la sua comparsa la figura della fine della storia, intesa da Koyré quale unica ed insieme impossibile condizione affinché una filosofia della storia, ovvero una filosofia che possa afferrare il senso del tempo umano nel suo farsi storico, si realizzi. Tale possibilità non è contemplata da Koyré, mentre è proprio a partire da essa che si sviluppa il progetto kojèviano di una mise à jour della filosofia di Hegel.
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[1] A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 2008, p. 456.
[2] A. Koyré, Hegel a Iena, trad. it. R. Salvadori in J. Hyppolite, A. Kojève, A. Koyré, J. Wahl, Interpetazioni hegeliane, La Nuova Italia: Firenze 1980, a cura di R. Salvadori, pp. 136-167.
[3] A. Koyré, Hegel a Jena, cit., p. 135.
[4] A. Koyré, Hegel a Jena, cit., p. 150.
[5] Ivi, pp. 156-157.
[6] Ivi, p. 157.
[7] Ivi, p. 159.
[8] R. Morani, Rileggere Hegel, cit., p. 152.
[9] A. Koyré, Hegel a Jena, cit., pp. 166-167.